Recensione: Dwellers of Apocalypse
Secondo full-length per i deathster milanesi Daemoniac, “Dwellers of Apocalypse”. Non male, per una formazione originatasi nel 2013 e che, nel 2017, ha debuttato con “Spawn of the Fallen”.
Non male, poiché il genere trattato dai Nostri è puro old school swedish death metal, cioè qualcosa che, per filosofia di base, è e sarà sempre relegato a un onorevole underground ma che, stavolta, nel loro caso, vede l’ingresso in campo di una label di tutto rispetto come la spagnola Xtreem Music. In grado, quindi, di fornire quanto di necessario per una realizzazione seria e professionale.
E così è: “Dwellers of Apocalypse” ha un gran suono, pieno, dettagliato, preciso e pulito. Ideale affinché il combo lombardo possa scatenare i suoi Watt senza… pattinamenti e/o indecisioni di sorta. Una cosa non da poco, questa, poiché consente di gustare con facilità l’eccellente abilità esecutiva posseduta dal combo medesimo. Spesso e volentieri realizzazioni similari sono soffocate da produzioni sporche, rozze e cattive nel senso di basso livello. A volte appositamente, a volte no. Ecco, “Dwellers of Apocalypse” supera tutto questo dall’alto di un sound che, tecnicamente, non presenta difetti di sorta.
Avendo alle spalle tanta potenza da vendere, i Daemoniac sparano bordate tremende, che cozzano fra loro in maniera ordinata, sì da dar luogo a un feroce assalto frontale. Alimentato anzitutto dall’instancabile chitarra di Max – mastermind del duo che comprende Matt alla batteria – autrice di una sterminata varietà di riff, perfettamente riusciti nella riproduzione zanzarosa che tanto sa di vintage. Riproduzione irreprensibilmente affogata nelle spire di, per esempio, ‘The Last Call’, brano (che è quasi una suite) in cui il drumming, per nulla timoroso di sfondare la barriera dei blast-beats, dà dimostrazione di abilità e perizia nonché di un groove ideale per il genere di cui trattasi. Nel momenti in cui si ode soltanto il rombo della sei corde, il piacere per una foggia musicale quasi arcaica raggiunte vette di sublime allucinazione.
Ancora una volta, tuttavia, bisogna purtroppo rilevare che nell’old school il massimo sforzo appare in essere per disegnare lo stile, come già scritto senza alcun difetto, lasciando un po’ da parte il songwriting dei brani. Si tratta di una sensazione personale di chi scrive, e quindi opinabile; ma volendo essere il più oggettivi possibile è davvero arduo riconoscere con la dovuta decisione una song all’altra. Non che siano simili poiché manchi la voglia o il talento, ma perché derivanti da una non perfetta lettura del genere stesso che, con gente come i Dismember, giusto per fare un esempio, non è mai accaduta. Forse è l’interpretazione di Max ad appiattire un po’ il tutto, il che è plausibile poiché, sempre a parere di chi scrive, la bontà intrinseca della musica dei Daemoniac meriterebbe un vocalist dedicato, capace, cioè, di concentrarsi in maniera assoluta sulle linee vocali. E, quindi, di dare fiato e anima a ciascuna delle tracce.
La personalità dei Daemoniac, comunque, non si tocca: il retroterra culturale che si percepisce dietro ai pezzi del platter è estesa e profonda e lo stile, pur non mostrando niente di nuovo – ma così deve essere, se si vuole suonare la vecchia scuola – , è adulto, formato al 100%, indicativo di un progetto musicale dalle grandi potenzialità.
Insomma, i Demoniac propongono il loro old school swedish death metal… meglio degli svedesi stessi. Manca qualcosa, per diventare un sicuro punto di riferimento per le generazioni a venire: la canzone. Ma dato atto dalla stringente sensazione di avere a che fare con musicisti con i colleoni, questo vuoto si può colmare con relativa semplicità.
Forza Demoniac, avanti tutta!
Daniele “dani66” D’Adamo