Recensione: Dying Breed
Simpatici. Divertenti. Scanzonati.
Un po’ vintage nello spirito, a cavallo tra hard glam losangelino da Sunset Boulevard e l’ondata rock revivalistica proveniente dal nord Europa.
Non fosse che arrivano dalla vicina Francia e sono già al quinto disco in carriera, si potrebbe immaginare una nuova realtà hard rock di nascita scandinava. Crazy Lixx, primi Crashdiet, Bai Bang, Ammunition, Shiraz Lane, Dynazty: ipotetico parentame di una band che nel look e nel modo di proporsi dichiara sin dal primissimo contatto quelle che sono da sempre le proprie attitudini e fonti d’ispirazione.
Un quadro descrittivo che si prospetta tutto sommato semplice e mette in chiaro facilmente le caratteristiche basilari di un gruppo che non cerca certo d’essere originale (non lo ha mai fatto), ma punta piuttosto sul versante ricreativo della musica, lasciando da parte qualsivoglia tipo d’impegno o pensiero evoluto.
Con un risultato tutt’altro che malvagio, mediato tra l’irruenza di un hard schietto ed immediato, insieme al buon mestiere di un nucleo di musicisti in giro dal 2003 e ben lungi dal poter essere definito alle prime armi. In possesso quindi, di gran parte degli strumenti da considerare quali “arsenale” utile nel costruire un buon disco di semplice, classico e dilettevole sleaze / hair metal ottantiano.
Di quello che si ascolta in scioltezza, scorre con piacere ed al suo passaggio lascia solitamente una piacevole sensazione di svago, consueto balsamo per l’umore e consolante conferma di quanto un genere all’apparenza demodé come questo, in fondo, sia destinato a perpetuarsi ancora a lungo. Nonostante, oltretutto, un titolo volto al compiacimento autocelebrativo come “Dying Breed“: la “razza morente” a cui il quartetto francese sente d’appartenere per elezione, teoricamente destinata ad estinguersi ma, al contrario, sempre viva e ben presente sui palcoscenici di tutta Europa.
I Blackrain non scoprono, nemmeno stavolta, nulla di nuovo. Volutamente e con un pizzico d’orgoglio. Così come già accaduto nei capitoli precedenti, la formuletta va a memoria ed arriva veloce al sodo: melodia canticchiabile, chitarre grintose in evidenza, ritornello immediato sostenuto da un bel coro.
Poche canzoni – una decina – mai troppo lunghe, una ballata, riff circolari talora devoti agli Ac/Dc (su pezzi quali “Hellfire” e “Blast me Up” siamo al vero e proprio “omaggio”) ed una voce un po’ urlata che, in virtù di un’estensione non certo delle più ficcanti, si rivela a tratti quella addizione di voluta “ignoranza” tale da rendere paradossalmente ancora più credibile l’attitudine stradaiola del gruppo.
Una pattuglia di episodi sopra la media (la title track, la seguente “Hellfire” e la saltellante “Rock Radio” su tutte) produzione di buon livello e copertina in linea con la giocosità della proposta, incorniciano un disco decisamente grazioso, al quale gli assetati del genere potranno guardare con discreta fiducia.
In definitiva, nessun capolavoro ed un canovaccio piuttosto prevedibile, in cambio però di qualche bel momento di hair, sleaze (o come diavolo lo si voglia chiamare) rock incastonato in un cd che, comunque, non annoia quasi mai.
Se è un po’ di disimpegno quel che stiamo cercando, può andare bene anche così: alziamo il volume e ci accontentiamo molto volentieri.