Recensione: Dying Season
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Ascoltare i Burning Gates è come leggere Rimbaud: significa passare una stagione all’inferno.
“Dovrei avere un mio inferno per la collera, un mio inferno per l’orgoglio, – e l’inferno della carezza; un concerto di inferni.”
Così scrive il poeta nella sua ‘Stagione’ mentre le soglie di fuoco – ‘Burning Gates’ può essere tradotto come ‘Cancelli dell’Inferno’ – si aprono a una dimensione nella quale lo spirito tocca abissi innominabili ma, allo stesso tempo, forieri di una chiarezza estrema.
Un po’ perché amo le connessioni (Poesia e Musica hanno lo stesso dio) un po’ perché, come disse André Breton, dopo Rimbaud non si può tornare indietro, durante l’ascolto dell’ultimo album dei BG, ‘Dying Season’, uscito via Swiss Dark Nights lo scorso 15 gennaio, la suggestione rispetto a un’eredità lirica, nel senso più ampio del termine, è potente e rivendica l’attrazione che provo per la linea espressiva feroce che si trova in coloro che del linguaggio si servono per raccontare una rivoluzione.
Per quanto riguarda il fanciullo di Charleville sappiamo del suo caricarsi del passato per scardinarlo e andare ‘oltre’. Allo stesso modo, la musica e i testi dei BG mostrano apertamente le loro origini: Fields of the Nephilim e Killing Joke riecheggiano ovunque eppure, anche se la carriera della band torinese vanta più di qualche decennio e diversi successi, ‘Dying Season’ – la stagione che muore – è una sorta di culmine dal quale sarà difficile tornare indietro.
L’album è diviso in due, con la settima traccia – ‘Awakening (MMXXII)‘ – un Risveglio datato 2022 – a fare da spartiacque; si apre con ‘Emerald Wounds‘, una spoken intro che mi riporta al tormento denso di corporeità della poetessa Joyce Mansour, ulteriore legame con le visioni incendiarie di Rimbaud, uno dei numi tutelari del Surrealismo, corrente della quale la Mansour fece parte.
‘Without Shelter‘ (‘Senza riparo’) e ‘Dying Seasons‘ (Stagioni morenti’) segnano l’inizio di una crisi interiore: dalla presa di coscienza di essere come una belva in gabbia che vive un’esistenza senza senso – Like a tiger in a cage / I move along random paths / like a bullet fired by mistake – alla consapevolezza che il tempo divora qualunque cosa, e altrettanto accade nell’inferno freddo dell’insoddisfazione di un uomo, dove tutto scompare, anche il ricordo di ciò che era importante – Under the gaze / of an unhappy man. / Season die. / And memories fade / in the hands of a tired man. / Seasons die – arriviamo in ‘The Cloud Factory‘ a un sentimento di inadeguatezza, tanto più se lo sguardo che si posa sul mondo non è lo stesso dell’altro.
La canzone è ispirata al sogno che una vera Maya ha raccontato a Michele Piccolo, tuttavia è sorprendente il contenuto poetico che ne deriva.
Nonostante il progresso scientifico e tecnologico, ci è impossibile comprendere veramente la struttura profonda della Natura, così nelle relazioni la differenza di esperienze, conoscenze e interpretazioni di una realtà che è comunque un sogno (il titolo fra parentesi è ‘Maya’s dream‘, con tutti i riferimenti al famoso velo che nasconde la realtà del mondo) crea una frattura impossibile da colmare, anche quando l’altro ci chiede di seguirlo e si offre di sognare per entrambi: “I watch you from within your dream / grabbed by my feet by my old age / barely resisting the vulgarity of my / knowledge / that strongly pulls me down. / Aware of having lost something.”
“Come with me, come with me / I’ll dream for you too.”
L’inganno supremo, la promessa di una conoscenza assoluta o di un sogno realmente condiviso è la stessa che ci viene regalata da un paradiso artificiale (qui evochiamo lo spirito di un altro poète maudit, nientemeno che Baudelaire) ed è a questo punto che ci troviamo di fronte a una scelta tanto radicale quanto dolorosa: restare nell’inganno, seppure meraviglioso, o provare a riunirsi alla realtà?
‘Days like these‘ è un brano duro, con un fondo di tristezza e disincanto che sembra una marcia funebre – “It’s a day like any other / but sometimes not changing crushes you / A day like any other / and the illusion gets real / life dictates its rules.”
Ma è un canto che alla fine rivela una speranza o, quanto meno, una presa di posizione: “It’s a day like any other / but time passes by / It’s a day like any other / and changing sets you free.”
‘Before the Rain (Changing of the Sky)‘ è il momento che annuncia il risveglio. La cortina del mondo è rarefatta, le nuvole – prima soffici e leggere come quelle irreali che campeggiano sui nostri display – ormai sono grevi di pioggia, stanno per scaricarsi – “grey looking for space in the blue / white diamonds cutting into the red / and deep black is still far away. / But it will come in a moment.”- I colori aprono la visione dei nostri occhi alla luce dopo la tempesta.
Nella ‘Stagione’ di Rimbaud, e precisamente ne ‘L’Alchimia del Verbo’, i colori sono associati alle vocali, il che significa accoppiarli ai suoni.
Qui la poesia fa sentire la propria voce giusto un attimo prima di cambiare per sempre. Gli occhi non saranno più gli stessi perché apparterranno al risvegliato che, in ‘Dying Season‘ è il protagonista di ‘Awaking (MMXXII)‘.
Ecco la svolta, il turning point: “This is real life / You’re going to wake up now.”
Nella realtà il risveglio coincide con una morte e un salto di conoscenza.
‘What I know’ – quello che sappiamo dopo essere andati oltre – “beyond and beyond / these words / beyond and beyond / these times” – è che la cortina del mondo (il velo di Maya) ora è scostata: il fuoco che ci consuma, ora, non ha più i sinistri bagliori dell’inferno ma la dorata luminosità di un amore che è cura, pazienza, dedizione.
‘Thoughts of fire‘ (Pensieri di fuoco) è un inno alla passione (soprattutto per la vita) e risplende nelle tonalità del giallo (direbbe Rimbaud) – “Send me every thought of fire you have for / me. / I will hold it in my hands without getting / burnt. / I will stare at it without closing my eyes. / I will follow the little sparks as if they were / your whispers.”
Eppure, come possiamo arrivare alla libertà completa, anche se l’esistenza ci offre uno stato di grazia? L’amore elevato è questo, ma è pur sempre un’ombra dell’amore assoluto ovvero, andando all’etimo della parola stessa, libero da legami.
‘Between solitude and freedom‘ – mi tocca tradurre poeticamente: la fuga in senso prospettico (e musicale), l’angolatura della visione che deforma e perciò rivela anfratti fino a quel momento non considerati, la differenza che sta fra la solitudine e la libertà, l’equivoco di fondo che ci obbliga alla sofferenza – la mia canzone preferita di ‘Dying Season‘ – concentra la propria forza nei versi ripetuti, nella sentenza scandita dai colpi di batteria: “I’ll never be alone enough / I’ll never be free enough / to feel isolation / to feel alone.” Vivere nel mondo comprende anche questa ambiguità.
Ma perché ritornare in gabbia? Perché insistere nel torturarci? L’esame di coscienza rischia di portarci nuovamente nel baratro…
L’album si chiude con tre riflessioni sul tormento. Nella prima, ‘ Torment part I: deepest signs‘ , l’inferno è assenza di luce e suono e riprende l’intro. Nella seconda si manifesta un’assenza ulteriore, che conduce verso un abisso nel quale l’apatia e la vergogna nutrono il rancore (Torment part II: spiritual decay). Nella terza, ‘Torment part III: revelations‘ l’inferno si rivela per ciò che è: semplicemente, tormento.
“Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati nella scoperta della chiarezza divina, – lontano dalla gente che muore sulle stagioni.” Questo è Rimbaud.
“Il tormento non produce poesia. / Il tormento non crea la passione. / Il tormento non vola sulle profondità. / Il tormento non evita la tempesta. / Il tormento non sfiora il desiderio. / Esso non lascia in pace la vita. / Il tormento è… tormento.” Questi sono i Burning Gates.
E da ‘Dying Season‘ non si torna indietro.
Lisa Deiuri