Recensione: Dynamind
A due anni dal precedente “The Great Momentum” tornano gli austriaci Edenbridge col loro decimo album, “Dynamind”. Il genere dei transalpini è, per chi non lo sapesse, un classico metallo sinfonico dall’afflato maestoso e le melodie accattivanti, il tutto guarnito da sporadiche e leggere incursioni elettroniche, una componente progressive discreta ed elegante e quel vago sentore di power/gothic che tanto inflazionò il mercato musicale tra la fine degli anni novanta e i primi anni del nuovo millennio. Niente che brilli per originalità, ne convengo anch’io, ma va dato atto ai nostri di aver mantenuto una notevole coerenza e di non essersi piegati alle varie mode che, invece, hanno fatto in modo che molti colleghi si perdessero per strada sulla lunga distanza. Metallo sinfonico duro e puro, insomma, in cui una sezione ritmica quadrata e chitarre che spaziano dalla cafonaggine all’eleganza sorreggono i veri protagonisti, e cioè le possenti tastiere e la voce limpida e suadente di Sabine, perfettamente a suo agio nel ruolo di sirena ammaliatrice grazie a una voce divenuta, col tempo, sempre più calda, a sua volta sorretta dagli immancabili cori per diffondere il proprio messaggio di positività e autoconsapevolezza.
L’album parte con la grinta di “The Memory Hunter”. Riffoni aggressivi e un piglio deciso la fanno da padroni, mentre la voce pulita si mantiene su toni più bassi e impertinenti salvo poi cedere terreno a una certa carica ipnotica durante il ritornello. La canzone procede su ritmi quadratissimi, scanditi da una batteria monolitica che tiene tutti in riga anche durante le incursioni più dilatate delle tastiere durante il ritornello, salvo passare le redini alle chitarre durante l’assolo carico di un pathos crepuscolare. “Live and Let Go” alleggerisce l’aggressività grazie a un tappeto sonico al tempo stesso enfatico e languido su cui si distendono le melodie portanti, che condiscono la loro sontuosità con toni zuccherosi ai limiti del pop. Si torna impertinenti con “When Oceans Collide” grazie al ritorno in piena luce di chitarre smargiasse. Con l’ingresso dei cori la canzone ritorna su binari più convenzionali, stemperandosi su un altro ritornello languido e sinuoso, mentre il finale torna a caricarsi grazie all’ultimo colpo di coda delle chitarre. Una melodia bucolica, cinguettante e smaccatamente folk apre “On the Other Side”, brano molto semplice ma frizzante, dal piacevole profumo celtico penalizzato, forse, solo da un ritornello un po’ monotono. “All Our Yesterdays” si apre con un arpeggio dimesso seguito da un’improvvisa intrusione dall’afflato maestoso. Il pezzo procede poi mescolando una certa tensione durante la strofa – grazie a chitarre graffianti sorrette da tastiere cerimoniali – e un ritornello più arioso. Il breve intermezzo dilatato apre a una sezione strumentale più energica che traghetta verso il finale e la sfacciata “The Edge of Your World”, dal riff d’apertura carico di groove stranamente simile, però, a quello dell’opener. Le differenze tra le due canzoni si palesano durante il ritornello, più enfatico di quello sinuoso ed ipnotico di “The Memory Hunter”; anche qui, un intermezzo dilatato e dal vago retrogusto prog stempera per un attimo la carica bombastica del pezzo, aprendo poi a un assolo più vigoroso ma riservandosi il diritto di tornare anche poco prima del finale, colorando il pezzo con i suoi toni pastello prima di cedere il passo all’ultimo guizzo di enfasi. Si passa ora a “Tauerngold”, ballatona dai ritmi lenti e i toni languidi che si carica, pian piano, di una maestà corale sempre crescente, intervallata di tanto in tanto da uno sporadico irrobustimento che dona al pezzo un certo equilibrio. “What Dreams May Come” suona la sveglia con chitarre agguerrite e una certa cafonaggine sinfonica: la canzone gioca con una leggera tensione durante tutta la strofa, salvo poi caricarsi di enfasi durante il ritornello. Questa ambivalenza persiste per tutta la traccia, spezzata ulteriormente dall’ormai solito intermezzo contemplativo che apre a una seconda metà più energica, in cui trova posto il rapido assolo. La chiusura, nuovamente enfatica, cede il posto alla lunga suite “The Last of His Kind”, in cui la vena progressive di Lanvall viene lasciata libera di esprimersi, tra un richiamo ai Pink Floyd e l’altro. La canzone si distende pacata lungo i dodici minuti abbondanti che la compongono, serpeggiando sinuosa tra arpeggi dal taglio contemplativo e improvvise accelerazioni per dare la sveglia, ma scandendo la sua avanzata su tempi generalmente dimessi, contenuti, da cui fa capolino, di tanto in tanto, un certo estatico trionfalismo. Chiude l’album la breve title-track, in cui la voce di Sabine duetta con una melodia pacata, indistinta, quasi notturna nel suo incedere delicato e sognante, e chiude questo “Dynamind” con una bella nota nostalgica ma al tempo stesso carica di speranza.
“Dynamind” conferma in toto le capacità del gruppo austriaco, sempre abile nel tessere melodie immediate a passaggi strumentali eleganti e tutt’altro che banali, ma non riesce, a mio avviso, a far breccia fino in fondo. Le canzoni sono tutte abbastanza solide, ma spesso finiscono per assomigliarsi o per seguire la medesima struttura e ciò, se da un lato aumenta il tasso di omogeneità del lavoro, dall’altro ne impenna anche la prevedibilità, finendo per rendere il risultato complessivo troppo altalenante per svettare sull’agguerrita concorrenza.