Recensione: Dysangelium
Esistono dei miti creati sul nulla e dei miti come i tedeschi Blood. Esistono gruppi che non sopravvivono più di un paio di album alla tentazione di cambiare rotta (cosa non necessariamente negativa), e chi al settimo album vive ancora dello stesso spirito e della medesima intransigenza. E in un genere dove il successo più piccolo è sovente seguito da cambiamenti di dubbia onestà artistica, anche questo può essere considerato quantomeno un motivo di rispetto.
La prima passata a Dysangelium mi ha suggerito questo; tutto il resto è emerso dopo. E nel ‘resto’ c’è del buono e c’è del marcio, ma tutto in nome della fedeltà ai proprio fan o almeno alla propria coerenza musicale. Perchè di fatto questo album non è il loro miglior lavoro, anzi, è piuttosto mediocre per le loro possibilità. Ma è pur sempre un cd suonato col loro stile, con i loro intenti, e che forse non è uscito come ci si aspettava.
Chi pensa che il grindcore viva solo di rumore ed intransigenza forse è il caso che dia un’ascoltatina a questi Blood, che da anni dimostrano il contrario; abbandonata (anzi, mai imboccata) la strada della velocità allo stato puro, i nostri preferiscono viaggiare su tempi medi e dare un’impronta ‘atmosferica’ alle loro canzoni. Non mancano delle sorte di sperimentazioni, come l’opener “Blood Pulsation” o “Devil Dance”, che aiutano proprio in questo scopo. La faccenda non si riduce ad un paio di tracce anomale, ma è estesa poi a tutto il lavoro e a tutti i suoi pezzi.
Un grindcore molto cupo, con tematiche quasi anomale e votate all’essere a loro modo in sintonia con la musica, e una tecnica forse appena sufficiente per le esigenze della band; non aspettatevi di trovare i Nasum dell’underground, oppure i Carcass del 2003, perchè siete fuori rotta completamente. Più cocciuti che mai, i Blood ci sfornano l’ennesimo album prodotto in maniera approssimativa e tanto, tantissimo, carico di misantropia in musica. Purtroppo le canzoni non sono tutte così interessanti come mi aspettavo, e cadono spesso in ripetizioni o soluzioni banali che imbruttiscono parecchio.
Non mancano le tracce che colpiscono nel segno, come “The Heretic”, ma facendo un discorso generale non sono queste a prevalere. Proprio perchè sto valutando un album di un gruppo portabandiera dell’underground, non posso indulgere su questa piccola caduta di tono, e devo ammettere che si poteva fare di meglio. Ma tutto lascia presagire come questo sia solo un piccolo stop, non certo il punto di svolta negativo della loro carriera. Un album andato non troppo bene, non l’album sintomatico di un definitivo addio alla qualità che da sempre ci propongono.
Penso che 65 sia il voto che i ‘non fan’ devono avere in mente; per chi li segue da sempre, o per i grinder più incalliti, questo è comunque un episodio da non perdere, una prova andata male di un gruppo che comunque deve far da riferimento per chi apprezza l’estremismo musicale vero. E siccome raramente i migliori sbagliano due volte di fila, non resta che attendere ancora con più ansia quello che ci riservano per il futuro…
Matteo Bovio