Recensione: Dystopia

Di Daniele D'Adamo - 2 Gennaio 2015 - 22:44
Dystopia
Band: Carnality
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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79

Spegnere la coscienza. Per azzerare il passato e ricominciare daccapo. Un’idea rivoluzionaria, per coloro che hanno commesso dei delitti, sì da permettere il loro recupero nella società civile. Se non fosse, però, che detta intuizione si presti magnificamente, da parte di una risicata oligarchia, per controllare le tutte le persone e quindi a ottenere il potere assoluto. Potere assoluto che genera una società nuova. Distopica. Come in tutti i regimi, tuttavia, i rivoluzionari tramano nell’ombra…

È questa, in estrema sintesi, la trama letteraria che forma l’ossatura di “Dystopia”, secondo album della technical death metal band italiana Carnality, il quale giunge sugli scaffali a tre anni di distanza dall’ottimo omonimo debutto. Ancora un cambio di line-up, nel frattempo (Shane al posto di W. Leardini al basso), che non impedisce alla band di concentrarsi al massimo sul nuovo materiale da registrare, presso i Domination Studio di Simone Mularoni, sottoveste – come si è potuto ormai intuire – di concept-album.  

Ma non è solo l’imponenza della storia a supporto di “Dystopia”, a impressionare. Non appena “Abyssus Abyssum Invocat” mette in mostra il suo raccapricciante incipit ambient, infatti, lo spaventoso muro di suono elaborato dalla chitarra di Righetti e dai suoi compagni emerge in tutta la sua magnifica foggia. Una forma elaborata all’inverosimile, come un bassorilievo scolpito da un artista indemoniato, strabordante d’idee e visioni. Purtuttavia fecondo, anche, nel rifinire la superficie delle sue creazioni con pulizia e rotondità.  

Una metafora, quella sopra imbastita, che rende onore al fenomenale sound dell’ensemble romagnolo. Denso all’inverosimile di note, accordi, soli, cambi di tempo e tutto quanto altro necessario per corredare una definizione pressoché perfetta di ‘technical death metal’. La quale, a parere di chi scrive, pare più appropriata di ‘brutal death metal’ giacché, nonostante la tremenda aggressività del growling di Scarlatti, i quattro cavalieri di Rimini fondano il tutto su un approccio volto a far emergere con preminenza l’aspetto tecnico / esecutivo / compositivo rispetto a quello, seppur rilevante, che rimanda ogni cosa alla ‘pura e semplice bestialità’.

E, a proposito di soli, più su menzionati, c’è da rilevare che non si limitano a lacerare, strappare oppure arrampicarsi su scale impossibili. Al contrario, la loro costruzione non lesina una certa dose di melodia (“Doomsday”) che, anche in un contesto ‘serioso’ come questo, ha il pregio di ridurre la pressione sonora e dar fiato all’apparato uditivo. Per sopportare, sempre e comunque, un attacco continuo, architettato con classe, spinto dall’energia devastante prodotta dai blast-beats di Arlotti (“God Over Human Ruins”). A proposito di questo specifico tema, i Carnality cercano con testardaggine di non farsi soffocare dalla loro stessa asfissiante bravura, fissando l’attenzione, con encomiabile coraggio, sulle canzoni. In primis. Rammentando che, durante il processo compositivo, un’eccessiva meticolosità nella ricerca della nota non deve mai soffocare l’anima che una song deve possedere; anima viva, forte e pulsante.    

Osservando attentamente le realtà che attualmente popolano gli angusti territori del metal super-estremo, i Carnality non sfigurano di fronte a nessuno. Nemmeno ai più celebrati ‘mostri’ americani, di cui non si mormora alcun nome per non far torto a nessuno. Quando, ‘dentro’, quell’indefinibile ‘quel qualcosa in più’ pulsa e si agita, c’è la condizione necessaria per creare un buon lavoro. E, ‘quel qualcosa in più’, c’è. Sia nei Carnality, sia in “Dystopia”.    

Daniele “dani66” D’Adamo

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