Recensione: Dystopia
“Buongiorno ragazzi, oggi interrogazione di Geografia.” (silenzio di terrore) ”Bene bene vediamo un po’…Tu, lì in fondo nascosto dietro lo zaino, dimmi tre simboli della Danimarca”, “Ecco prof così a freddo, mmm, cioè, ecco, bè… direi i biscotti danesi, quelli gustosi e pieni di burro nella scatola di latta che in seguito diventa un contenitore porta tutto; poi sicuramente la Sirenetta, simbolo di Copenaghen ad onore del grande favolista Andersen, infine gli inossidabili, immarcescibili e imperturbabili Royal Hunt!”.
Che dite me la sono cavata? Con i Royal Hunt si fa sempre un figurone, dai, è difficile non conoscere un gruppo che suona dell’ottimo progressive metal da quasi trent’anni (l’etichetta progressive metal va assolutamente presa con le pinze). Difficile anche recensire un gruppo che come tanti altri ormai ha probabilmente detto tutto (chi ha pensato Dream Theater e Iron Maiden?).
Cosa ci si aspetta di trovare quando ascoltiamo una nuova uscita di un gruppo storico? Dovremmo aspettarci qualcosa di diverso, innovazione? Ma neanche a parlarne: chiunque ha provato a rivoluzionare drasticamente il proprio sound ha fallito miseramente o quasi (non so perché mi rivengono in mente i Dream Theater). D’altronde dopo tutti questi anni passati a suonare e scrivere musica di un certo tipo, il loro stile è definitivamente tatuato a fuoco nell’anima, difficilmente si può cambiare.
Ci aspettiamo quindi conservazione? Sicuramente di ritrovare almeno la “stessa” musica, un po’ come quando vai da un vecchio amico che non vedi da un po’, con il quale hai condiviso tanti momenti della tua vita. Lo conosci talmente bene che probabilmente non servirebbero neanche parole, ma alla fine ascoltarlo ancora una volta ti fa sempre immenso piacere. Ed è proprio questo che prevediamo di trovare, i soliti “vecchi” Royal Hunt con il loro progressive (poco ad onor del vero) raffinato e suonato con perizia, contaminato e irrobustito con buon heavy e sano power metal. Anche gli interpreti d’altronde sono gli stessi del precedente Cast In Stone del 2018, cui si aggiunge una serie abbastanza nutrita di special guest dietro il microfono: Alexandra Andersen (già voce femminile nel precedente album) e poi Mark Boals, Mats Leven Henrik Brockmann e Kenny Lubcke.
Troppe voci sinceramente, quasi fosse una Metal Opera, anche se in realtà ci troviamo al cospetto di un classicissimo concept album, intitolato Dystopia che parla di una tematica tra l’altro poco originale, perché a memoria già affrontato da Iced Earth e Megadeth (e chissà quanti altri). Il concept infatti è basato sul romanzo distopico di Ray Bradbury, “Fahrenheit 451”, che racconta la storia oscura di una società futura in cui leggere e possedere libri è considerato un reato. Dystopia è un album speculativo e molto cinematografico, pregno di rumori di strada, lamenti di sirene e altri suoni ambientali che creano atmosfera e allo stesso tempo si adattano e introducono alla musica vera e propria (li possiamo apprezzare soprattutto nella intro “Inception °F451” e nelle due “Intermission” a metà e a chiusura di album).
L’album parte bene, con la potente e neoclassica “Burn”, song serrata e veloce sostenuta dalla sempre ottima voce di D.C. Cooper, con un bel ritornello che si imprime subito nella memoria per essere canticchiato insieme al frontman (alla bell’e meglio, ovviamente). Un ECG in chiusura che va a scemare sino a linea piatta (sentito troppe volte) e ci ritroviamo nel secondo pezzo “The Art Of Dying” questa volta cantato da Mats Leven (Candlemass, TSO , Skyblood), pezzo emotivamente molto coinvolgente e molto meno “borioso” rispetto alla precedente cavalcata. Sinfonico ed epico al punto giusto, è un brano che si ascolta piacevolmente, anche perché ricco di cori, di archi e di assoli.
Fermi tutti adesso! È l’ora dell’immancabile ballad a due voci con la Andersen e D.C. Cooper; è infatti un bel pianoforte quello che introduce “I Used to Walk Alone”, però da subito qualcosa non convince. Le voci sembrano slegate o comunque poco complici, e la sensazione è quella di un brano molto (troppo) sinfonico che si allontana eccessivamente dal metal anche quello più leggero. Pioggia battente sul finale (anche questa sentita troppe volte) e veniamo nuovamente coinvolti con la successiva “The Eye of Oblivion” forse il brano più riuscito del platter perché quello più vicino allo stile classico dei Royal Hunt ed è quello che più ci piace no?! La seguente “Hound of the Damned”, molto hard rock invece, si allontana inesorabilmente dal mtal, inserendo elementi di elettronica, ritmo sostenuto e il solito bell’intreccio di cori sul refrain. Come legare il tutto con il brano successivo? Semplice, anche questa volta con un quid sentito troppe volte: un fuoco scoppiettante di un falò con un ululato solitario e ci troviamo alle prese con “Black Butterflys”. Tornano i “nostri” Royal Hunt con un altro bel pezzo, immersivo, empatico e con una meravigliosa melodia che ti avvolge con le sue orchestrazioni. È poi la volta di “Snake Eyes”, brano che richiama e ricorda lo stile Hard’N’Heavy degli anni ’80 anche se probabilmente con scarso successo, perché ormai fuori tempo massimo. L’album si chiude con il suono delle onde del mare che si infrangono sulla sabbia: “Midway” è la seconda Intermission dell’album. Scelta strana quella di chiudere con una Intermission…dobbiamo forse aspettarci altro? Al momento sembrerebbe di no, dobbiamo allora fare il punto su quello che abbiamo assimilato sino ad ora.
In realtà basta sommare tutte le osservazioni che abbiamo fatto, per capire come questo Dystopia sia un album con molti chiaroscuri. La classe e la bravura dei Royal Hunt è indubbia, d’altra parte però hanno dato alle stampe un album pieno di cliché, a partire dal concept stra-abusato sino ad arrivare a diverse soluzioni musicali sentite troppe volte e prive di originalità. Tornando al concept, sembra effettivamente anche poco studiato, ogni canzone lavora a sé, senza fondersi pienamente con le altre, lasciando una sensazione di scollamento generale che lascia ai soli suoni ambientali e agli intermezzi il compito di cementare il tutto. Ci sono pezzi che funzionano bene e altri un po’ sottotono: probabilmente con una maggiore estrosità e ricerca del dettaglio, il risultato sarebbe stato più convincente.
Ma questi sono i Royal Hunt oggi e non credo possiamo aspettarci qualcosa di dissimile da quanto proposto con Dystopia. D’altra parte come diceva un certo Albert Einstein: “Ci sarà sempre una penna per scrivere il futuro, ma non ci sarà mai una gomma per cancellare il passato” e quello che hanno raccontato negli anni i Royal Hunt resterà indelebile nella memoria; il futuro certamente è solo affar loro, a noi rimane la speranza di poterli ascoltare ancora, come quando si ascolta un buon vecchio caro amico.