Recensione: E.V.O.
Ritorno sulle scene per gli Almah, gruppo brasileiro famoso prima come progetto parallelo di Edu Falaschi (ex Angra) e poi, dopo la sua uscita dalla band madre, come nuovo gruppo principale del cantante verde-oro. “Unfold”, precedente album del combo sudamericano, aveva diviso critica e pubblico: chi lo osannava, chi lo definiva un buon album ma dal taglio troppo moderno e chi in esso non vedeva più sbocchi per il futuro del gruppo carioca. Forse è stato proprio questo motivo a spingere il buon Edu a fare un passo indietro e a tornare a giocare in casa, come si suol dire, riproponendo in questo “E.V.O.” le atmosfere calde e solari che il nostro ben conosce dalla sua passata esperienza. Il ritorno del sole nella proposta degli Almah si avverte già dalla copertina: il concept di “Unfold”, con la figura femminile al centro della scena, viene ripreso ribaltandone però il cromatismo freddo e tagliente in favore di un boato di colori caldi per abbracciare l’Acquario, segno che simbolicamente rappresenta l’uscita da un lungo letargo e la proiezione verso un futuro di maggiore benessere e apertura.
“Age of Aquarius”, la traccia di apertura dell’album, rappresenta questo passaggio dai rigori invernali alle prime avvisaglie di primavera con il cinguettio degli uccelli e una melodia rilassante e compassata su cui si innesta la voce calda di Edu. A un tratto la voce si impenna per presentare il resto del gruppo e partire a spron battuto: riff rapidi, tastiere magniloquenti e luminose e sezione ritmica arrembante contribuiscono a confezionare la perfetta opener, melodica e gioiosa, per un ritorno in scena come si deve. La prima sorpresa arriva però con la successiva “Speranza”, traccia maestosa il cui inizio mi ha ricordato più volte la proposta di qualche gruppo da classifica che si ascolta una dozzina di volte al giorno su Mtv: anche qui la parte del leone la fanno le melodie, solari e zuccherose ai limiti del diabete, ma il tutto viene eseguito con un gusto e una classe tali che non ho potuto fare a meno di applaudire un simile gioiello (anche se, detto tra noi, l’intermezzo centrale di voci bianche se lo potevano risparmiare). L’arpeggio finale traghetta alla terza traccia, “The Brotherhood”, power ballata che più ruffiana non si può e che mi ha scaraventato direttamente al periodo in cui, da pischello, ascoltavo Bryan Adams (ascoltatevi il ritornello e ditemi se non ricorda anche a voi, voce a parte, l’epoca d’oro del canadese).
Una melodia artificiale e contenuta introduce “Innocence”, traccia dall’impatto vocale molto narrativo e una struttura nervosa che molto richiama alla mente gli Evanescence o i Linkin Park dei primi tempi (sì, l’ho detto); il sentore di mezzo passo falso si irrobustisce poco prima del ritornello, con la comparsa di voci filtrate che, seppur discrete, mi hanno lasciato un po’ così. La sezione solista, per quanto ottimamente realizzata, non ha fatto altro che confermare il mio poco gradimento per una canzone secondo me riuscita a metà, che per fortuna cede ben presto il passo a “Higher”, in cui fin dai primi secondi si respira aria di casa grazie a una ritmica classicamente power e al ritorno alle melodie solari cui i fan degli Angra sono abituati. In realtà la canzone non è un capolavoro, fin troppo canonica, ma dopo l’esperimento “Innocence” è ciò che serve per tornare in carreggiata.
Melodie soffici introducono “Infatuated”, traccia piaciona ed accattivante che strizza più di un occhio ad un certo rock da classifica, beneficiando al contempo di un’atmosfera estiva che dona al pezzo una notevole godibilità, mentre una rollata di batteria ci consegna la ben più briosa “Pleased to Meet You”, tutta giocata su un riff sinuoso e sui giochi vocali di Edu. Anche qui, come altrove in E.V.O., si torna a respirare aria di casa, grazie a una traccia saldamente ancorata alla tradizione Angra ma che, ciononostante, non si dimentica di introdurre qualche elemento velatamente estraneo per arricchire il caleidoscopio musicale degli Almah.
Con l’arrivo di “Final Warning” le melodie si fanno più aggressive e rimbombanti: le chitarre passano in secondo piano, pur continuando a macinare riff sotto traccia, mentre le tastiere si appropriano dell’attenzione del pubblico e supportano Edu nelle sue acrobazie. Il breve e sognante assolo di chitarra costituisce la classica ciliegina sulla torta, accennando solo quanto basta senza bisogno di strafare. È ora il turno della languida “Indigo”, in cui differenti stili e correnti anche contrapposti confluiscono ai comandi di quei furbacchioni di Edu Falaschi e Marcelo Barbosa per confezionare una traccia da pollice alto, con un assolo che regala piccole schegge di classe.
Purtroppo la legge di Murphy colpisce senza pietà, e l’altro passo falso dell’album risponde al nome di “Corporate War”, in cui l’equilibrio perfetto di “Indigo” si spezza irrimediabilmente consegnandoci una traccia discreta ma indecisa, le cui diverse anime non si amalgamano a dovere e rendono il pezzo, a mio avviso, un po’ troppo fuori contesto nell’economia dell’album. Per fortuna l’album si rialza in extremis con la conclusiva e più quadrata “Capital Punishment”: qui, infatti, le atmosfere solari e le melodie ariose che ci hanno accompagnato per buona parte dell’album si incontrano con riff e concetti più duri e serpeggianti, il tutto condito dalla voce di Falaschi e cori a profusione.
Concludendo, quest’ultima fatica in casa Almah può essere vista in molti modi: come un giusto ritorno alle melodie che, dopo le sperimentazioni del passato, l’ascoltatore medio si aspetta dagli Almah oppure come un passo indietro di Edu e soci in nome di un facile consenso dopo un infruttuoso tentativo di percorrere una strada diversa. Quale che sia la vostra verità, “E.V.O.” ci consegna un gruppo decisamente in forma, con molte più luci che ombre e, soprattutto, una manciata di pezzi di qualità sopraffina il cui gradimento, ascolto dopo ascolto, non fa che aumentare. Ben fatto.