Recensione: Eagle Flight
Quarto album per Deen Castronovo ed i Revolution Saints.
Prendendo in prestito una sorta di proprietà commutativa traslata alla musica, potremmo dire che, modificando i nomi dei musicisti, il risultato non cambia.
Piccola rivoluzione, infatti, nel progetto pensato anni fa dai vertici di Frontiers per esaltare le grandi doti vocali dell’ottimo batterista statunitense, divenuto nel frattempo anche bravissimo interprete di melodie AOR.
Dopo tre album di successo, escono dalla line up il chitarrista Doug Aldrich (Ex Whitesnake) ed il bassista Jack Blades (Night Ranger). Entrano a prenderne il posto il “prezzemoloso” Joel Hoekstra (lui, attualmente nei Whitesnake, negli Iconic ed un po’ ovunque si suoni buon hard rock) e Jeff Pilson, bass player di Dokkeniana memoria che, come Hoekstra, non sta mai fermo un attimo e si divide in mille collaborazioni.
Cosa ne risulta? Nulla di dissimile ai tre dischi precedenti usciti con il marchio Revolution Saints: la conferma di quanto detto in apertura.
La voce di Castronovo va come sempre a distendersi su di un panorama di melodie AOR di chiara ispirazione classica. I Journey con i Survivor (abbiamo detto classica, no?) sono la matrice inconfondibile di tutto quello che è scritto e composto per diventare patrimonio dei Revolution Saints.
Morbidezza ed eleganza con profonde cromature ottantiane. Quando si cerca un po’ di ruvidità, si lascia che siano le linee vocali a rendersi un minimo più aggressive, accompagnandole con qualche riff abrasivo ed un incedere comunque difficile da definire irruente, quanto piuttosto sornionamente passionale.
C’è molto di americano nella musica dei Saints sin dagli esordi. Le atmosfere ispirano skyline notturni o distese assolate. Paesaggi costieri, sapori estivi. Un florilegio di sensazioni positive che sono quintessenza del rock melodico e vanno a connettersi con l’immaginario da AOR Heaven – l’edulcorato paradiso del rock adulto – codificato oltre oceano sin dai primi eighities da Steve Perry e Neal Schon, assieme ad altri indomiti paladini del genere.
Verrebbe da dire che quello dei Revolution Saints è un po’ una sorta di jolly per Frontiers.
Un moniker che vale sempre, che ha la “formula” e che – per chi ne ama i contorni – è destinato a non fallire mai.
Così è pure stavolta.
Non un brano brutto, non una canzone da buttar via, non un riff sprecato o una melodia scritta per riempire.
Voce perfetta, seguita da vicino con parti suonate divinamente ed un piacere d’ascolto che rimane salvo per l’intera durata del cd.
Una cura per ogni fastidio.
Dottore, mi potrebbe prescrivere un cd dei Revolution Saints alla settimana, grazie…?