Recensione: Earth Blues
Da ormai più di un decennio, gli Spiritual Beggars sono uno dei punti di riferimento principali per la scena stoner mondiale. Con il passare degli anni, la creatura di Michael Amott, noto anche per i suoi trascorsi tra le file di Carcass, Arch Enemy e Candlemass, è riuscita a consolidare il proprio status di autorità nel genere grazie ad una serie di album impeccabili, tra i quali citiamo in particolare “Ad Astra” e “On Fire”, entrambi da annoverare tra i migliori lavori del genere dell’inizio del nuovo millennio. Risale invece al 2010 l’avvento del vocalist greco Apollo Papathanasio, già nei Firewind: con lui alla voce gli Spiritual Beggars danno alla luce “Return to Zero”, un bel disco caratterizzato da spunti più classicamente heavy, esattamente come si poteva immaginare dato il background del nuovo cantante.
L’ultimo “Earth Blues” rappresenta un ritorno a certe sonorità puramente stoner, e come prevedibile si tratta di un nuovo viaggio nel tempo, all’epoca in cui Deep Purple, Uriah Heep e Blue Oyster Cult la facevano da padrone. “Earth Blues” guarda ovviamente indietro ai grandi del passato, presenta un sound retrò, ma non pensate che sia un disco noioso: i pezzi sono tutti coinvolgenti e di grande impatto, e ce lo dimostra subito “Wise as a Serpent”, che in soli due minuti e mezzo regala già l’impressione di trovarsi di fronte ad un capolavoro. Impressione confermata immediatamente anche dal singolo “Turn the Tide”, impreziosita da alcuni dei riff più trascinanti del panorama hard rock odierno e dal rock’n’roll sfrenato di “Hello Sorrow”, mentre “One Man’s Curse” presenta uno stile più funk che rilegge in chiave più moderna gli insegnamenti di piccole leggende ormai dimenticate, come ad esempio Snafu e Hanson.
Le composizioni si fanno un pochino più lunghe e complesse con “Dreamer”, pezzo più lento e più ispirato ai Whitesnake – dove Papathanasio giganteggia ricordando il miglior Coverdale – e con “Too Old to Die Young”, che parte in quarta per poi evolversi in una canzone più varia e ragionata. Già con la successiva “Kingmaker” si ritorna ad una struttura più lineare, con l’apoteosi del disco che sarà raggiunta proprio dal brano più semplice e corto, cioè “Dead End Town”, che trova il suo punto di forza in un ritornello tanto elementare quanto geniale. Dopo l’hard rock infuocato e trascinante di “Freedom Song”, a chiudere troviamo “Legends Collapse”, infarcita da riff distortissimi che riecheggiano la solennità dei primi Black Sabbath.
In conclusione, “Earth Blues” è un gran disco senza filler (e non è cosa da poco, contando che i brani sono ben 12), che mette in luce una band in ottimo stato di salute: lo consigliamo a tutti gli amanti dell’hard rock, specialmente quello oscuro ed appassionato degli albori degli anni ’70.
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