Recensione: Echoes From The Ground
E’ incredibile, nel 2005 sono riuscito ad inciampare in un disco che riesce a suonare identico ai My Dying Bride d’annata; non lo pensavo possibile nel ventunesimo secolo.
Potrei chiudere qui la recensione, infatti quel periodo della band lo conoscono tutti, i famosissimi britannici ed i loro capolavori più datati li ha ascoltati anche il più sprovveduto metallaro dell’ultim’ora.
Eppure i Paramaecium, band dalle tematiche cristiane a suo modo fondamentale in quanto capace di una sigillo storico come Exhumed of the Earth (1993), hanno pensato che non fosse sufficiente riesumare a caso un pezzo della discografia di Aaron & Co.
A parte un mini tuffo al cuore provato nel ricordare i vecchi tempi, non riesco a sorvolare sulle caratteristiche di uno stile che io non rispolvererei mai e poi mai, indissolubilmente legato a ciò che fu e che non tornerà mai, ovvero l’evoluzione di un genere che ora mi appare tanto, anzi troppo, fuori dal suo contesto. La musica moderna è altro, ci vuole qualcosa di diverso per attirare l’attenzione, questo lavoro non ne ha le caratteristiche e quelle che porta puzzano quasi di stantio, come la cantina dove si tengono i vini. Tra le altre cose, anche volendo sorvolare sull’aria rarefatta da soffitta polverosa, come si può evitare di notare che l’unica cosa piacevole del disco è la pulizia del suono e la produzione cristallina?
Le ritmiche sono sempre le stesse, rallentate e ripetitive, la distorsione abbastanza azzeccata ma di gusto comune, la consueta voce femminile che dovrebbe dare lustro ma che sembra un siparietto dovuto, l’abusato violino che suona le solite partiture fotocopiate da altri ed inserite in frangenti banali e prevedibili. Come se non bastasse, a calcare la mano ci pensa la voce pulita, che uccide a suon di brutture vocali alcuni passaggi che perdono ogni efficacia, finendo stremati a terra dopo pochi secondi. Unico punto a favore il growl, sgraziato ma adattissimo per l’occasione.
Al tempo, feci un po’ fatica a digerire il mitico Aaron Stainthorpe, che col suo timbro vocale meravigliosamente drammatico e teatrale dispensa tutt’oggi saggezza musicale, peccato che nei nostri australiani manchi proprio lui al microfono e ciò fa la sostanziale differenza. La tonalità e l’interpretazione vocale sono pressochè anonime e da ritoccare in più punti, prive di sentimento. Se a questo si aggiunge la relativa incisività delle melodie che non trasmettono emozioni particolari, la frittata è quasi fatta, basta soltanto un pizzico di noia qua e là.
Echoes From The Ground è manchevole anche nell’eventuale tentativo di celebrare con stile ciò che è stato grande per una band ed un’epoca: troppa poca ispirazione e freschezza per partorire qualcosa di prolifico o degno di menzione. Una natura (s)morta che si trascina lentamente nella polvere.
Forse dipenderà dai singoli dare o meno una chance a Echoes From The Ground ? Soltanto i gusti potranno sancire l’utilità o l’inutilità di sette canzoni così? Per certo so che in 42 minuti circa non si fa altro che rimettere in piedi un modo stra-vecchio ed obsoleto di fare gothic, che ormai ha sparato ogni cartuccia. Se invece si vorrà essere di bocca buona, beh allora andranno bene anche gli odierni Paramaecium.
Da Melbourne con amore ma poco ardore, cinque anni di silenzio che potevano essere bagnati con maggior verve. Non mi sento di consigliare l’acquisto a nessuno in particolare, nemmeno ai nostalgici che preferiranno gli originali dell’epoca.
Tracklist:
01. Night Fears Morning
02. Over The Sea
03. The Chosen Land
04. They Tend To Die
05. I
06. My Failing Heart
07. Echoes