Recensione: Echoes of Annihilation
“Cenote Sagrado“, l’inquietante intro con lugubri tamburi a battere sotto un altrettanto inquietante manipolazione ambient, simboleggiano il portale di ingresso per “Echoes of Annihilation“, debut-album degli statunitensi Ancient Entities.
Essi propongono una specie di death metal che va oggi per la maggiore, soprattutto nel loro Paese di origine. Death che pesca alcuni dettami nella seconda metà degli anni ottanta, e altri al giorno d’oggi; fondendoli assieme con dovuta bravura per evitare pasticci. L’affermazione è ponderata e veritiera, giacché non è facile conciliare due propaggini dello stile in epoche diverse.
Da citare subito il mood del disco. Che è quello che va a ritroso del tempo. Buio, tetro, oscuro, orrorifico; esattamente come quello degli act che in allora praticavano il nascente black metal. Un forte senso di claustrofobia stringe la gola, blocca le membra, annebbia il cervello. La musica dei Nostri, difatti, rimanda a nere caverne scavate km sotto il livello del mare, ove vivono creature biancastre, cieche che, per assurdo, fanno compagnia ai cupi pensieri che attanagliano il cervello.
Un aspetto, insomma, che riguarda specificamente la visionarietà che il combo a stelle e strisce riesce a realizzare con la sua opera. Nella quale, ora, si può anche affermare che vaghino qua e là brandelli di doom metal. Di quello arcaico, ovviamente. Giusto per approfondire lo strato musicale, davvero ragguardevole per le mutevoli emozioni ossianiche che circolano nel corpo umano all’ascolto, per fare un esempio, di “Empire in Ashes“, brano multiforme che scatena i suoi furibondi blast-beats per un violentissimo attacco frontale. Death metal che fa anche (metaforicamente) male per via della sua capacità di passare dai mid-tempo alla più pura follia scardinatrice, frantumando tutto ciò che incontra nel suo cammino.
La produzione tende a restituire un sound tutt’altro che lindo e pulito, anzi. L’esecuzione, senza pecche, trova sfogo in uno stile sporco, fangoso; ideale complemento per le tematiche che abbracciano storie di antiche civiltà e miti. Una sorta di barriera per difendersi dagli innominabili dei che divorano i Mondi.
Occorre tornare al batterista, Bernardo Mendia, visto che si tratta di un talentuoso interprete che butta giù pattern assai complessi, estremamente vari, mai uguali a se stessi. Unito al basso di Luke Veranth realizza una sezione ritmica devastante, che non perde un colpo o una nota.
Spaventoso, pure, il lavoro compiuto dalle chitarre di Alex Rausa e Jake Falk. Autrici di ritmiche che non è esagerato definire perfette per il genere. Gli accordi, anche in questo caso, sono pressoché innumerevoli ma nella loro difficoltà assoluta risultano sciolti, naturali, regalando quel senso di dinamicità che non è così frequente rinvenire in band che operano nello stesso settore. Gli assoli sono praticamente assenti, ed è forse per questo che lo stile dei Nostri è così devoto a scavare nell’anima come se fosse una trivella. Niente abbellimenti, insomma, bensì tanti, tanti riff esplosivi, compressi dalla tecnica del palm-muting, i quali corrono alla velocità del suono.
E la voce. Quella di Brian Gulliford. Growling, e su questo non c’erano dubbi. Tuttavia, le linee vocali sono così soffuse che paiono uscire dalla bocca di un morto. L’effetto è gradevole, perlomeno per chi ama questo specifico genere artistico.
Come spesso accade, il punto debole del tutto sono le canzoni, un po’ troppo simili le une alle altre. Tant’è che anche dopo reiterati ascolti viene assimilato lo stile, il sound di “Echoes of Annihilation” nella sua globalità. Più complicato, discernere le varie tracce per memorizzarle e, quindi, percepirle differenti le une dalle altre. Si è ascoltato di molto peggio, questo bisogna dirlo, ma pare che il neo del mancato songwriting singolo appaia sul dorso di parecchie formazioni della stessa razza degli Ancient Entities.
Da non buttare nel dimenticatoio, comunque.
Daniele “dani66” D’Adamo