Recensione: Eclectic Poison Tones
Quando si parla di Doom e Heavy Psych è corretto riconoscere al Veneto un ruolo di primo piano: negli anni Ottanta ha dato i natali agli immensi Black Hole, che con il loro ibrido tra Doom metal e Progressive rock hanno contribuito in modo significativo alla definizione degli stilemi dell’Italian Dark Sound, e agli Epitaph (risultato dello scioglimento temporaneo dei primi), ad oggi una delle realtà nostrane più apprezzate in ambito internazionale. Anche in tempi più recenti, però, la regione del Nord Est ha generato band di valore: dagli sludgers trevigiani Bleeding Eyes ai fricchettoni psichedelici vicentini Mother Island, fino ai Messa di Cittadella (Padova) che, con il loro Stoner/Doom a tinte jazz, si stanno imponendo anche oltre confine.
Dal Veneto, più precisamente da Verona, provengono anche i Jahbulong. La formazione, composta dal cantante/chitarrista Pierpaolo Modena, dal batterista Nicolò Bonato e dal bassista Martino Tomelini, è attiva dal 2015 ed esordisce nel 2017 con un EP autoprodotto. Questi primi tre pezzi sono sufficienti ad attirare l’attenzione della Go Down Records, etichetta che molto sta facendo per promuovere la scena Stoner/Doom/Heavy Psych italiana e che ha sotto contratto band come Mother Island, Ananda Mida e Mad Dogs. I Jahbulong entrano dunque nel roster della Go Down Records che nel 2018 dà alle stampe uno split con i Mongoose e lo scorso 30 ottobre il primo full lenght “Eclectic Poison Tones”.
La matrice dell’album è uno Stoner/Doom ampiamente debitore alle sonorità di Sleep, OM ed Electric Wizard, ma la proposta è caratterizzata, e personalizzata, dalla capacità di fondere in modo organico elementi presi in prestito da generi come il Grunge/Alternative e la psichedelia. L’apertura di “Eclectic Poison Tones” è affidata a “Under the Influence of the Full”, caratterizzata dall’equilibrata giustapposizione di fragorosi wall of sound e passaggi più quieti in cui l’incedere delle linee vocali è sostenuto unicamente dalla sezione ritmica. Sulla ¾ il pezzo si evolve in un lungo passaggio strumentale, il cui protagonista è un assolo di chitarra che acquista maggior spessore nel finale in cui, sorretto dal muro sonoro costruito da basso e batteria, diventa sporco e dissonante. La successiva “The Tower of Brocken Bones” è un pezzo davvero ben riuscito: senza voler scomodare nomi pesanti, ma solo per rendere meglio l’idea, sembra di sentire Mark Lanegan che si cimenta in una cover degli Sleep. Cantato e chitarra, dapprima pacati, si appesantiscono con il procedere del brano, definendo un suono a metà strada tra l’anima Stoner/Doom e quella Alternative rock della band.
“The Eclipse of the Empress” si sviluppa attorno a un riff di chitarra denso e slabbrato, dalle frequenze bassissime. Le influenze rock più chiaramente percepibili nelle tracce precedenti ora si affievoliscono in favore di un sound spigoloso e ruvido, dall’incedere fumoso, per certi versi affine a quello degli svedesi Monolord. Nella lunga cavalcata strumentale di chiusura, “The Eremite Tired Out (Sweed Dreams)”, gli ormai familiari riff dilatati e downtuned e gli assoli di chitarra psichedelici congiurano con un organo per ottenebrare i sensi dell’ascoltatore.
La registrazione, il missaggio e la produzione, curati, lineari ed essenziali, restituiscono fedelmente il sound diretto ricercato dalla band e valorizzano i fragorosi toni di chitarra che, come spesso accade nello Stoner/Doom, è la vera protagonista dell’album. Altro elemento in linea con i dettami del genere è la copertina, ad opera di Nino Cammarata, che raffigura un’entità incappucciata, sospesa a mezz’aria e avvolta da una tetra spirale viola, che, reggendo un tomo voluminoso, sembra simboleggiare conoscenze antiche e arcane.
Nonostante alcuni miglioramenti che potranno essere apportati grazie a una maggiore maturità compositiva, come per esempio sintetizzare le idee in pezzi dal minutaggio più ridotto, quello che i Jahbulong ci consegnano è un buon disco d’esordio, piacevole da ascoltare e assolutamente consigliato ai fan del genere.