Recensione: Ecstatic Death Reign
Formazione giovane, gli Ashen Tomb. Che tuttavia ha bruciato le tappe. Nati nel 2021, dopo un pizzico di gavetta alimentata da qualche singolo, EP e split, con “Ecstatic Death Reign” danno alle stampe il loro debut-album.
Formazione giovane, musica giovane? No, perché il genere scelto per frantumare le ossa craniche è l’old school death metal, anche se leggermente aggiornato per sopravvivere nel presente. Il che apparentemente è strano, poiché più di una volta sono sorti act che, invece di andare di pari passo con i tempi, hanno percorso quest’ultimo all’indietro. Come se mantenere intatto il cordone ombelicale con le prime realtà che, nella seconda metà degli anni ottanta / primi anni novanta, hanno creato e poi rifinito il death, sia una ragione di vita artistica e di sopravvivenza.
A parte più d’una suinata sparsa per l’LP (“Ancient Tombs Sealed with Dead Tongues to Preserve the Hidden One Slumbering in the Bowels of the Earth (Mummified in Cavernous Darkness)“), gli Ashen Tomb propongono quindi un sound sufficientemente fedele agli stilemi del sottogenere di cui trattasi. Sound marcio, cavernoso, definito anche dalle ragnatele aggrappate alle caverne stesse. Il mood è grigio, dal sentore di putrefazione, in certi momenti addirittura insopportabile.
Particolare attenzione occorre porre sui pattern di batteria, ove Valtteri Viro sfonda come un toro la barriera dei blast-beats per entrare nel reame della follia. Una circostanza, questa, che mal si pone con la dottrina del death metal vecchia scuola ma che fa parte di quegli aggiornamenti necessari per diversificare il proprio stile da quello enciclopedico.
Non manca neppure una strizzatina d’occhio agli Slayer con “Heartworming“, in cui le due chitarre iterano i leggendari intrecci del gruppo statunitense. Anche in questo caso non si riesce a fornire una spiegazione adatta per spiegare questo rigurgito thrashy se non la solita voglia di inserire elementi eterogenei alla concezione della vecchia scuola.
O meglio, il combo finlandese, con l’introduzione dell’inhale e dei blast-beats nonché con qualche passaggio thrashy, ha presumibilmente cercato un compromesso fra ortodossia e modernità. Restando in ogni caso nei limiti dell’old school, come peraltro più su affermato, grazie a un forte feeling che, presumibilmente grazie alla sua bravura a tutto tondo, s’instaura con l’ascoltatore per una restituzione totale e azzeccata della foggia musicale trattata.
Con che è chiaro che la realizzazione di “Ecstatic Death Reign” ha coinvolto praticamente tutta la band. A partire da Ilkka Laaksonen, cantante che fa della versatilità il proprio marchio di fabbrica, la quale gli consente di mischiare linee vocali diverse ma perfettamente aderenti allo stile elaborato assieme ai suoi compagni. Fra i quali non si possono non citare i due chitarristi, impegnati fondamentalmente nel costruire un robusto muro di suono per un impatto ad alto contenuto energetico. Il rifferama è vario, non particolarmente complesso, che tuttavia scorre con linearità e scioltezza.
Menzione a parte per il già menzionato Viro, drummer che rifugge dai soliti quattro-quarti che molte volte vengono utilizzati in questo campo per scatenare la furia degli elementi grazie a pattern complicati, multiformi, ma soprattutto terremotanti, possenti, violentissimi, in una parola devastanti (“Body Bog“).
Ecco che allora emerge il talento compositivo del quintetto di Helsinki. Sia per quanto riguarda il singolo brano, ciascuno ben diverso dagli altri, sia per quanto concerne “Ecstatic Death Reign” nella sua globalità. Cioè, una vivida dimostrazione di come l’old school death metal possa tranquillamente sopravvivere se si possiede la capacità di ritoccare qualcosa qua e là per renderlo un po’ diverso dal solito, e ammodernarlo al terzo millennio senza stravolgerne i ben consolidati dettami.
Daniele “dani66” D’Adamo