Recensione: Eigengrau
I Rise Of Avernus sono australiani, sono nati nel 2011 e hanno alle spalle due EP (“Rise of Avernus”, 2012; “Dramatis Personæ”, 2015) nonché due full-length: “L’Appel du Vide”, 2013, ed “Eigengrau”, 2018. Il loro nome richiama l’Averno, lago di origine vulcanica ubicato nei dintorni di Napoli ma, soprattutto, il nome degli inferi nella mitologia greca e latina il cui accesso avveniva proprio dallo specchio d’acqua menzionato.
La band si autodefinisce, come stile, orchestral/death/doom metal. Il chiarimento della band stessa appare tuttavia un po’ fuorviante, almeno a parere di chi scrive, poiché, secondo i canoni ormai vigenti, “Eigengrau” è più un’opera di symphonic death metal che un mix di generi pur sempre vicini fra essi ma comunque diversi. Una semplificazione, questa appena eseguita, che dovrebbe consentire di leggere con più facilità il disco medesimo.
Il quale, comunque, si basa su di un notevole impatto melodico, non particolarmente complesso anzi di agevole presa, frutto di imperiose orchestrazioni architettate per sostenere l’intera struttura del suono. Il death è il death e quindi non ci sono da attendersi sconti, quando si tratta di pestare duro e di aumentare indefinitamente l’aggressività con il comando del roco growling delle linee vocali. Non solo, improvvisamente, come fulmini a ciel sereno, come saette divine, partono all’impazzata i blast-beats che strappano il continuum spazio-temporale per rivelare visioni da leggenda o, meglio, da mitologia classica.
È evidente che il mastermind Ben VanVollenhoven e i suoi due compagni d’avventura abbiano totale conoscenza delle arti che comandano sia la tecnica esecutiva, sia la composizione delle armonie. Musicisti completi, cioè. Per cui, evidentemente, non potevano che essere perfette anche le song, otto, che compongono il delizioso platter. Song dall’alto livello qualitativo, tutte obbedienti ai dettami del progetto musicale messo in piedi dai Nostri. Non ci sono riempitivi, cali di tensioni, passi falsi: “Eigengrau” è un album tutto d’un pezzo, potente, massiccio, in alcuni momenti pure monumentale (‘Mimicry’). La furia degli archi scuote l’etere, i blast-beats lo strapazzano, le possenti sinfonie e gli inquietanti cori femminili lo rinsaldano per coagulare la materia invisibile nelle poderose arie chiamate ‘Ad Infinitum’, capolavoro d’intensità emotiva, ‘Tempest’, carro armato in avanzata bellica guidato da screaming scellerato e ‘Into Aetherium’. Ultimo atto, pesante come un macigno, violentissimo, forse concepito per richiudere a forza l’entrata dell’Averno, una volta usciti a riveder le stelle.
Davvero interessanti, i Rise Of Avernus, capaci di creare visioni, sensazioni, emozioni con la sola energia della loro musica, senza complicarsi la vita, e complicarla agli altri, con inutili orpelli e astrusità fini a se stesse.
Daniele “dani66” D’Adamo