Recensione: Elaborations of Carbon [Reissue]
Dopo 21 anni dalla sua uscita, “Elaborations of Carbon”, full-length di debutto dei colossali Yob, rivede finalmente la luce con un nuovo appeal grafico e sonoro, proponendosi per la prima volta in vinile e sulle maggiori piattaforme digitali. I die-hard della band possono finalmente completare la loro collezione, ed ai meno avvezzi è permesso scoprire, o riscoprire, anche questo emblematico spaccato della loro carriera. La riedizione è a carico di Relapse, etichetta attuale del trio statunitense.
Uscito nel 2002 sotto l’indipendente 12th Records, il disco si differenzia dai successivi per la produzione più scarna ed il piglio casereccio ed underground, come tipicamente accade per gli album di debutto di numerose band seminali nel loro genere. La formazione prevede, oltre al cuore pulsante della band Mike Scheidt in veste di cantante/chitarrista e principale compositore, Lowell Iles al basso e Gabe Morley dietro le pelli.
Il gap in termini di elaborazione sonora e produzione tra EOC e tutti gli album successivi è notevole, ma ciò che rende speciale questo disco è la netta tracciabilità delle influenze della band, sia musicali che contestuali: una sorta di compendio informativo riguardo agli Yob, una intro di tutto rispetto alla loro ricca discografia che, a posteriori, sembra voler dire: “Ciao, amiamo gli Sleep, I Neurosis ed i Cathedral, veniamo dai centri sociali di una piccola comunità statunitense e vogliamo fare una musica pesantissima, contaminata ed unica nel suo contesto”.
Il resto della storia, lo raccontano i dischi successivi: spoiler alert, ci sono riusciti.
La produzione di quest’opera, scarna e cruda, rimanda all’immaginario underground dello sludge americano anni ‘90, quello di Eyehategod, Acid Bath e compagni di merende. Lascia immaginare amplificatori di quinta mano e lattine di birra calda, odore di ganja e sudore nell’aria ed una brama di riff incazzati che si taglia col coltello. È un’aria punk, metal e grunge allo stesso tempo, un calderone di sottoculture fuse tra loro dove i “diversi” si raggruppano insieme contaminandosi a vicenda con le loro differenti nuances (ricordiamo che Mike Scheidt inizia la sua carriera in veste di bassista hardcore).
Ed è proprio respirando quest’aria che la visione sonora degli Yob inizia a prendere forma, alimentata da un desiderio di espressione nel qui ed ora che sembra non intravedere ancora lontanamente l’evoluzione ed il successo in attesa per questo gruppo.
In un’intervista rilasciata recentemente da Mike al magazine Decibel, il leader della band, originaria di Eugene, Oregon e attiva dal 1996, descrive infatti il background dell’epoca come un terreno ancora estremamente poco fertile in termini di successo per stoner, doom e affini, soprattutto nel contesto di una piccola città come la loro. E non si tratta soltanto di non avere ancora uno spazio preciso in cui collocarsi in termini di genere, laddove questo mood musicale sembra essere troppo lisergico per i metallari, troppo metal per i punk e troppo oscuro e dilatato per i più, ma anche di intravedere la necessità di riformare le proprie influenze in qualcosa che trascenda i generi stessi senza avere ancora bastevoli mezzi e conoscenze, sia interni che esterni, per rendere viva questa visione, raggiunta appieno negli anni successivi.
Che il contesto offerto sia punk e ruspante si vede e si sente, come si sente l’evidente apprezzamento nei confronti della nascente scena heavy-psych di Sleep ed Electric Wizard, ancora ben lontana dalla popolarità raggiunta negli anni successivi.
Ma, soprattutto, si sente il metal.
Si sente in tanti passaggi che strizzano l’occhio alla brutalità di death e black, si sente nelle sue vesti seminali di oscuri riff sabbathiani ed assoli inaspettatamente classici, e si sente nell’adorazione catartica nei confronti del doom e dei Cathedral di Lee Dorrian, citato più volte da Mike Scheidt come punto di riferimento anche per il suo cantato.
Il disco raccoglie queste influenze in una modalità ancora acerba dove la voce di Mike, pur già poliedrica e coinvolgente, non raggiunge ancora il livello tecnico e la duttilità che lo hanno reso negli anni tra i più venerati del Doom di seconda ondata, nonostante vi sia già la sua classica alternanza tra puliti onirico-strazianti e rabbiosissimi scream&growl nei passaggi più concitati.
In “Universe Throb” e “All the Children Forgotten”, la tendenza alla dilatazione della band si intravede già perfettamente cavalcando per dieci minuti ciascuno l’oscurità e la lentezza tipiche del doom, proponendo sprazzi di heavy metal classico e death conditi dalle tipiche dissonanze che caratterizzano lo stile di Mr.Scheidt alla chitarra.
Con “Clear Seeing” entriamo in un mood decisamente più stoner vecchia scuola, dal ritmo arido, groovy ed incalzante relativamente accostabile a quello dei Kyuss per citare una band popolare. E continuiamo su questa ondata con “Revolution”, dove il suono inizia però a virare sulla lentezza e la cadenza rilassata degli Sleep, per ben 17 minuti.
In “Pain of I”, tutti gli elementi citati in precedenza danzano all’unisono impreziositi da un brutale tocco estremo, non mancando di proporre i classici cambi di tempo degli Yob e risultando essere probabilmente il miglior brano del lotto, più ascrivibile al carattere futuro della band.
Finiamo l’ascolto con “Asleep in Samsara” dove ancora una grande dose di stoner groove cadenza 17 ulteriori minuti di musica e il metronomo viene lasciato a casa a favore di riff trascinanti dal carattere molleggiato e meditativo.
Il piglio sonoro di questo disco risulta più raffazzonato dei successivi non solo per un’amalgama tra le influenze ancora un po’ carente che può far risultare alcuni passaggi slegati tra loro, ma anche per un suono ed una produzione limitati che anziché differenziare il carattere unico dei singoli pezzi tende a mantenersi piuttosto costante, rischiando di generare all’orecchio dell’ascoltatore un po’ di ripetitività soprattutto nei brani dal minutaggio più corposo. Bisogna dire però che non è da tutti riuscire ad imbastire pezzi così lunghi con una struttura tale da favorire l’immersione anziché la noia, e nonostante le inevitabili piccole pecche appena discusse, gli Yob dimostrano di poterlo fare già in questo loro embrionale progetto.
Nella loro evoluzione successiva, fatta di frequenti cambi di formazione ed etichette, di crescente presenza dal vivo e di un profondo studio dei propri strumenti inclusivo di una grande educazione vocale e dell’implicazione sempre più complessa di effettistica e produzione, gli Yob sono riusciti ad elaborare un suono unico dove le influenze si combinano in forme sempre più evocative e minuziose lasciandosi talvolta indietro alcuni elementi e rinnovandosi con nuove ispirazioni.
La band, stabilizzatasi da lungo tempo in Aaron Riesberg al basso e Travis Foster alla batteria (di recentissima sostituzione a favore di Dave French), si consacra al pubblico mondiale grazie ad una discografia che non finisce mai di rivoltare le interiora ed al loro leggendario impatto dal vivo, vantando non solo un’incredibile e crescente capacità tecnica ma imponendosi soprattutto per il muro di suono pazzesco e per l’emotività sprigionata dalle loro esibizioni. Esibizioni che, grazie al background sopracitato, funzionano alla perfezione in qualsiasi contesto dai palchi sempre più grandi e visitati dei festival di genere ai piccoli locali fumosi e maldestramente allestiti dove l’esperienza dal vivo è, se possibile, ancora più violenta e coinvolgente.
Non è mai stato un mistero, per stessa detta di Mike Scheidt in numerose interviste, che di pari passo alla concentrazione sul suono il carattere degli Yob sia stato influenzato, anche nei testi, dalla sua personale esperienza di vita, fatta di momenti emotivamente tormentati, alti e bassi costanti tra dipendenze e difficoltà ma pure di un forte lavoro interiore plasmato dall’avvicinamento alla meditazione e alle filosofie orientali. Un accostamento che può sembrare insolito a tanti nero-vestiti ma che dona alla band la capacità di navigare l’ascoltatore, pur attraversando momenti di autentiche brutalità e negatività, verso un’esperienza catartica e introspettiva che porta alla fine dei dischi, o ancor più dei live, ad uno stato di luce e pace interiore.
Tornando ad “Elaborations of Carbon”, la nuova veste propone, oltre al remaster, un ammodernamento grafico di tutto rispetto in linea con l’evoluzione della band in tal senso, laddove copertine decisamente caserecce sono state pian piano sostituite da ottime grafiche ed illustrazioni firmate da artisti di grande caratura, sia per quanto riguarda i dischi che l’offerta di merchandising.
E per quanto sicuramente le ultime uscite, includendo anche EOC, soddisfino l’esigenza di marketing di questo panorama dove il rinnovato feticcio per il vinile è un tripudio di edizioni limitate e packaging dalla cura minuziosa, bisogna dire che lo stile unico degli Yob è evoluto anche in tal senso, discostandosi dalla classicità ormai banale di maghi e demoni a favore di un immaginario onirico ed elegante che non potrebbe rappresentare meglio la dualità di luci ed ombre ormai caratteristica della band. L’opera è a cura di Orion Landau, già autore della riedizione di Atma del 2021 e di tanto loro merch.
Mi sento di consigliare questo disco a chi non conosce gli Yob? Non ne sono certa.
Non è forse il migliore inizio per quelli che si lasciano impressionare nell’immediato del primo ascolto, ai quali consiglio sicuramente di partire con gli Yob più classici di “The Great Cessation”, con la raffica di schiaffi in faccia di “Atma” o l’evoluzione più melanconica e dissonante del caldamente acclamato “Clearing the Path to Ascend”, da affibbiarsi rispettivamente a chi cerca Doom, Heavy Metal brutale ed un sussurro di Post Metal. Capisaldi che consiglierei anche a chi cerca suoni più rifiniti ed eclettici e non va matto per la marcezza dello sludge di prima generazione.
Ma per chi volesse avere l’accortezza di esplorare questa band nella sua integrità, sono certa che gli ascolti non si fermeranno a quest’opera, sapendo che il bello deve ancora arrivare. E tra costoro che preferiscono la crudezza alla minuziosità, c’è anche chi lo elegge come miglior disco della band: non concordo con questa opinione ma, valutando facilmente la maggior parte delle uscite successive con un 10/10, posso dire che si tratta comunque di una carrellata di ottime sassate dalla buona composizione e dalla soddisfacente crudeltà.
Gli Yob non sono una band per tutti, ci vuole sicuramente predisposizione alla dilatazione ed ai crescendo sudati per apprezzarli appieno. E non mi sognerei, neanche lontanamente, di consigliarli ai deboli di orecchie.
Ma possono facilmente entrare nel cuore di moltissimi ascoltatori dai gusti più variegati, accomunati dalla passione per i riff che spezzano la spina dorsale e per le band dal carattere unico senza alcun tipo di cloni od eguali, vantando un’autenticità in tutti gli estremi stati emotivi proposti difficilissima da trovare in altri progetti.
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/quantumyob