Recensione: Elegy

Di Daniele Balestrieri - 11 Ottobre 2001 - 0:00
Elegy
Band: Amorphis
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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80

È complicato parlare di Elegy senza fare riferimenti agli amorphis che hanno preceduto tale album e quelli che lo hanno seguito. Questo sesto lavoro (quarto album full-length) può considerarsi come uno dei tanti, unici anelli, che hanno portato gli Amorphis dal black di Karelian Isthmus al decadente ispirato di Am Universum.

Stavolta l’album prende ispirazione dal Kanteletar, monumentale poema finnico costituito di oltre 700 poemi di lunghezza e data estremamente variabili. Il tema principale di questi poemi è la tristezza e la gioia delle giornate del popolo finnico, trasmessa con parole semplici e vibranti che rendono vigore alle ermetiche liriche di ognuna delle undici canzoni che compongono l’album.

Le tastiere abbondano in questo album dai toni decisamente innovativi, e il sistema vocale cambia grazie alla voce pulita e leggermente roca del nuovo cantante Pasi Koskinen, che aggiunge pathos e leggerezza ad alcune delle canzoni più tristi dell’intero lavoro, coronate dalla title track, ancora una volta la più curata e vibrante dell’intero album.

Con Elegy si inaugura l’album – viaggio, un sistema organico di canzoni da ascoltare insieme, di seguito, affinché comunichi una serie di sensazioni concatenate che trascinino l’ascoltatore attraverso le atmosfere eteree e a volte crudeli delle tradizioni finniche. Questo sistema ha riscosso un gran favore del pubblico al tempo in cui uscì, tanto da adombrare “Tales from the Thousand Lakes”, album precedente che ha affascinato le schiere dei metal-fans.

La risposta a questo successo si trova tutta nel grande progresso offerto da questo lavoro. Chi voleva dei riff squisitamente ripresi dal metal o dal grind in genere ne ha trovato il ricordo in queste undici canzoni, mentre chi voleva la melodia, una traccia da seguire e ricantare ha trovato nelle tastiere, nelle poderose chitarre e nella voce pulita, scevra dai growling dei lavori passati, un qualcosa a cui attaccarsi e sopra cui viaggiare.

È quell’equilibrio tanto difficile da raggiungere ma che tanti consensi riscuote quando si riesce a instaurare.
E questo è quanto è successo, e anche per i più amanti del black metal è impossibile non innamorarsi, prima o poi, di questo lavoro. Perché se al primo ascolto potrebbe non riuscire ad innamorare, al secondo ci riuscirà e sarà un lavoro “perfetto”.

Per chi ama ancora il metal melodico con un’ampia scelta di sonorità e qualche greve ritorno al growling e ai veloci fasti del black, questo album sarà una scelta azzeccata, anche perché a modo suo ha segnato la storia, e non solo degli Amorphis.

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