Recensione: Embers of a Dying World
Band funestata da un’impressionante morìa di chitarristi, metaforicamente parlando, che li hanno costretti a faticare oltremodo per stabilizzare, almeno, lo stile, i finlandesi Mors Principium Est non si sono certamente depressi dopo l’abbandono di Kevin Verlay, secondo chitarrista di “Dawn of the 5th Era” (2014), penultimo full-length e quindi trait d’union con l’ultimo arrivato, “Embers of a Dying World”.
Anzi.
Messi da parte i guai, Ville Viljanen e i suoi tre compagni d’avventura, rispetto al citato “Dawn of the 5th Era”, hanno alzato il tiro scatenando, con “Embers of a Dying World”, la furia febbrile di un talento compositivo eccelso, sopraffino, raro. Che va ad allinearsi a quello degli altri straordinari act provenienti dalle terre finlandesi come Insomnium, Omnium Gatherum, Marianas Rest.
Ci deve essere qualcosa, lassù, fra i silenziosi laghi delle pianure boreali, che s’insinua languidamente nel cuore. Colmandone gli spazi. Un’entità malinconica e triste, che dà vita alla musica dei Mors Principium Est, che ne alimenta la linfa compositrice, che ne avvolge la tecnica esecutiva. Gigantesche orchestrazioni si ergono come altissimi pinnacoli di roccia, visibili anche in lontananza fra la bruma indistinta appoggiata agli specchi d’immota acqua.
‘Reclaim the Sun’, dura, massiccia, rocciosa, è una mazzata death non di poco conto, abbellita fortemente con la pienezza degli archi, accarezzata dolcemente dalle note del violoncello. In mezzo a tanta energia non è facile scorgere l’impulso vitale che nutre in abbondanza l’anima dei Nostri. Ma, in ‘Masquerade’, sì. La potenza è nondimeno tanta, epperò stretta dall’impercettibile quanto palpabile dolcezza della malinconia. Esplosiva, quando il solo di chitarra si libra nell’aria limpida e fredda. Andy Gillion, a proposito, mostra la sua bravura erigendo immani muri di suono riff dopo riff, dal tono aggressivo, per nulla mansueto. E, su quelle pareti, disegnando arzigogolati disegni dorati, con il pennello incantato dei soli.
Il lavoro svolto in sala è stato perfetto. L’AFM Records può fornire mezzi non da poco, e si sente: song come ‘Into the Dark’, prodotte impeccabilmente da Thomas “Plec” Johansson presso gli svedesi Panic Room Studios, rappresentano lo stato dell’arte odierno in materia di melodic death metal, abbracciando energie sconfinate ed erculee armonie. Ideali sottofondi alla linea principale, cioè quella vocale, che Viljanen interpreta con grande mestiere e professionalità. Un’ugola roca, leggermente spostata verso l’inhale più che in direzione del growling, tale da rendere le linee stesse a volte isteriche, ma soprattutto assai moderne.
Tornando alle canzoni, ‘The Drowning’ probabilmente identifica l’hit di “Embers of a Dying World”, essendo parecchio orecchiabile ma non certo catchy, giacché la band pesta sempre e comunque forte e chiaro. Il giusto preludio alla coppia ‘Death Is the Beginning’ e ‘The Ghost’, brani-capolavoro che proiettano il platter oltre l’atmosfera terrestre. Esplode definitivamente ciò che covava in profondità: la malinconia, meravigliosa compagna di moti dell’animo sublimi, resi concreti da una delicata female vocals che accompagna la rude ugola di Viljanen. Per un refrain indimenticabile, poetico, eroico, leggendario. Allora, i sogni cominciano a fuoriuscire dalla sorgente della mente come le stelle durante il crepuscolo. Sogni d’Amore, poiché è solo l’Amore che consente all’uomo di cogliere la piena consapevolezza dell’esistenza. La chiara percezione di sé, la definizione perpetua di un rapimento che accompagna per sempre un’esistenza. Rapimento per l’Amore, rapimento per la musica, rapimento per la natura, rapimento per i Mors Principium Est. Percezione che assume il carattere della consapevolezza durante il guitar-solo che Gillion tura fuori da chissà dove. La magia non conosce interruzioni di sorta e le cristalline note di un pianoforte introducono la meravigliosa ‘The Ghost’. È il momento del pianto. La commozione è uno struggente meccanismo per aprire se stessi all’imponente sound che fa da struttura portante del disco. Che non distrugge ma crea, inventa emozioni, attiva sensazioni profonde, smuove il punto d’inizio dell’anima. Sposta l’umore in direzione delle suggestioni declinanti la fine dei giorni, quando la coscienza svanirà.
Quando davvero, come una rivelzione, s’immagina la fine del tempo, ecco che ci pensano le micidiali scudisciate di ‘In Torment’, a risvegliare i sensi rapiti. Speed-song travolgente, a momenti annichilente. Vorticosa, come il tormento delle anime sensibili e fragili. Che, nella fragilità, immerse nei Mors Principium Est, individuano i punti fermi da cui ripartire per repredersi in toto i propri rapimenti, per seguirli sino al termine del tutto. Improvvisamente e inaspettatamente, dopo la cavalcata infuocata di ‘In Torment’, il cielo arrabbiato si apre in larghe vedute celesti, azzurre, blu. ‘Agnus Dei’ è l’anello di congiunzione fra il tormento e l’estasi, la sofferenza e la felicità, l’abbattimento e lo stupore. Pezzo d’incommensurabile bellezza. Straziato, poi, dalla furia scardinatrice di ‘The Colours of the Cosmos’, nuovo territorio di battaglia ove liberare senza freni l’innata predisposizione all’antitetico matrimonio fra la brutalità più ferale e l’armoniosità del movimento divino.
Sì, il death metal melodico non è di questo mondo. È dei Mors Principium Est, è in “Embers of a Dying World”.
Eccelsi, mirabili, sublimi.
Daniele D’Adamo