Recensione: Embryo
Si può scrivere di ‘mainstream death metal’ senza sollevare un’eccezione di eresia allo spirito del death metal stesso? Ovviamente no, giacché i dettami che sostengono l’intelaiatura del metallo della morte sono improntanti – anche nelle forme meno estreme quali ‘melodic death metal’, ‘symphonic death metal’ e ‘modern death metal’ – sempre e comunque su alcune caratteristiche di aggressività non eliminabili a meno di non determinare un cambio di genere.
Si può tuttavia provare a immaginare un death metal ove la forma-canzone è lineare e pulita; il drumming – anche se sostenuto – evita di esagerare sia con i rallentamenti, le accelerazioni (seppur si valichi a volte il muro dei blast-beats), i cambi di andatura; la chitarra imbastisce un’architettura ritmica assolutamente perfetta; la melodia trova mirabile unione con le tessiture delle tastiere. Allora, accompagnando il pensiero dall’astrazione alla realtà, ci può essere qualcuno che sia stato in grado di mettere tutto quanto sopra elencato su rigo musicale.
Anzi, c’è: sono i cremonesi Embryo. Che erigono il neonato full-length omonimo (il terzo in carriera) a emblema di come il death metal possa essere interpretato in maniera ‘easy’ mantenendone intatte le peculiarità formative. Ove, per ‘easy’, si deve intendere soltanto il modus operandi compositivo e non certamente il sound, difatti monumentale nel suo impatto energetico. Un sound sì addolcito dalle maestose tastiere di Simone Solla, ma tenuto su – in primis – dai granitici riff di Eugenio Sambasile, talmente precisi da poter essere utilizzati quali campioni per la misurazione del tempo. Riff di estrazione thrash, tremendi nella loro compressione ottenuta con la tecnica del palm-muting. Un vero muraglione di suono costruito con roccia basaltica, sul quale si svolgono i tappeti prodotti dalle keyboards e s’intersecano le linee vocali in growling – alternate allo screaming – di Roberto Pasolini. Niente clean vocals, per intendersi. Anche in questo caso, cioè, mutuando l’impostazione del riffing per una prestazione imponente, improntata principalmente sull’aggressività e sulla potenza.
Lo stile che ne deriva, quindi, presenta la classica antitesi fra la furia demolitrice di chitarra, voce e batteria; e le calde armonizzazioni di basso e, soprattutto, di tastiera. Rinvenibile in tutti gli undici brani che compongono “Embryo” a cominciare dall’opener “An Awkward Attempt”, eccellente commistione fra gli assalti controllati della sei corde e i ricami di Solla, con un refrain che assegna alla song la responsabilità di rappresentare l’‘hit’ del lavoro. Ma, assai più coinvolgente, appare la successiva “The Pursuit Of Silence”, pregna di quel tocco di cupa e aliena visionarietà che, in pratica, rappresenta il valore aggiunto di un progetto dal livello qualitativo assoluto. Sia tecnico, sia artistico. “Manipulate My Consciousness”, ferita da un’aritmia di pregevole fattura esecutiva, conclude un trittico di brani dall’immediatezza frontale, ma che, per questo, non impedisce ai brani medesimi di penetrare in profondità della… vittima.
Passata la tempesta emotiva delle prime tre canzoni, “Embryo” non perde affatto di consistenza, mantenendo una compattezza encomiabile e una continuità stilistica degna di una formazione matura in tutto e per tutto. Giusto per la cronaca si possono segnalare la ‘seconda da classifica’ , “The Touch Of Emptiness”; la lenta, drammatica “The Door To The Abyss” e la violentissima “I Am Pure Hate”, pienamente fedele al concetto evidenziato nel titolo.
Poco altro da aggiungere sennonché il death metal italiano, anche nella sua derivazione più melodica, non ha nulla da invidiare a quello proveniente da altre realtà. Gli Embryo lo dimostrano con disarmante facilità. Che, presumibilmente, è il frutto della loro dote migliore: la comprensibilità.
Daniele “dani66” D’Adamo