Recensione: Emerald Seas

Di Carlo Passa - 18 Febbraio 2020 - 7:19
Emerald Seas
Band: Seven Spires
Etichetta: Frontiers Records
Genere: Power 
Anno: 2020
Nazione:
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70

Giungono al secondo album i bostoniani Seven Spires, ormai identificati come la band di Adrienne Cowan, che è divenuta nota al grande pubblico negli ultimi anni grazie alla presenza nel carrozzone live degli Avantasia e all’aver prestato la propria voce all’ottimo progetto solista di Sascha Paeth Masters of Ceremony.
Ancora una volta, come già accaduto per il primo disco, missaggio e masterizzazione sono stati affidati alle sapienti mani del clan Miro/Paeth. Nulla da eccepire, dunque, sul suono di Emerald Seas, che invade l’ascoltatore con quella pienezza che è necessaria quando si propone un metal teatrale e, a tratti, pomposo come quello dei Seven Spires.
Ecco, la teatralità è il tratto distintivo degli statunitensi. Una teatralità che regala il meglio di sé quando la Cowan riesce nell’intento di farsi cantastorie, conducendo la musica lungo fiabe misteriose fatte di abbandono al mito. Meno buono è il risultato laddove, invece, la voce della cantante eccede nel growling che, pur essendo di qualità, non sempre si addice appieno alla scrittura musicale cui dovrebbe accordarsi meglio.
Emerald Seas è un disco cangiante. In ciò, esso trova al contempo la propria forza e debolezza. Se la variabilità delle atmosfere contribuisce a tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore, essa rischia a tratti di scadere in confusione, disorientando più che incuriosendo.
Comunque, il songwriting concede momenti ottimi, come l’opener Ghost of a Dream, un pezzo sostanzialmente heavy-power che trova nell’evocatività favolistica della strofa il proprio punto di forza. Un breve growling, qui posto in conclusione del pezzo, si innesta perfettamente nella canzone, avendo piena ragione di essere.
Sulla stessa linea si pone la buona No Words Exchanged, che accentua il tono teatrale dei Seven Spires, ben valorizzato da una prova calda di Adrienne, che gioca a fare l’attrice di se stessa.
Decisamente power metal è l’attacco di Every Crest, in cui la pomposità della mano di Sascha Paeth si sente tutta. Il pezzo, come tanto in Emerald Seas, è molto debitore dei Kamelot, dei quali sembra un outtake di pregio.
Unmapped Darkness farà la felicità dei power metaller, che sempre sono alla ricerca di ritornelli melodici e doppie casse sparate. Niente di nuovo sotto il sole, per carità, ma una bella penna ci consegna un pezzo alla fine fresco e meno banale di quanto si potrebbe immaginare.
Succumb è davvero molto Kamelot, forse troppo: se va salvata, è perché suonata e prodotta benissimo, a mascherare una certa debolezza compositiva.
Ed ecco che improvvisamente le atmosfere si fanno oscure e Drowner of Worlds ci conduce in territori definibili power symphonic black metal. I Dimmu Borgir incontrano i Kamelot, mentre la Cowan gioca a fare la Dani Filth in gonnella. Il risultato è altalenante e va giudicato più dal gusto dell’ascoltatore che non dalla fredda penna del recensore, il quale non può che iniziare a constatare un certo sbilanciamento tra le diverse anime di Emerald Seas.
Silvery Moon è una ballad un po’ gothic, sulla quale Adrienne si difende bene, benché i troppi orpelli dell’arrangiamento sporchino troppo una linea melodica splendida e davvero medievaleggiante. Peccato: un’occasione sprecata.
Bury You è il singolo di Emerald Seas, che fa tanto rumore per poco. Si tratta di un mid tempo power in 6/8 con un discreto ritornello, su cui la Cowan pare voler dimostrare più del dovuto: gli ottimi arrangiamenti e suoni non riescono a camuffare la debolezza del pezzo.
Fearless ci riporta ai Cradle of Filth, con risultati forse migliori che in Drowner of Worlds, nonostante che l’impressione di straniamento non scompaia.
Il morbido intermezzo di With Love from the Other Side, che si va a posizionare tra i Nightwish meno operistici e i Within Temptation, apre a The Trouble with Eternal Life, sui cui ancora una volta si stende l’ombra dei Kamelot, a questo giro a braccetto con, appunto, i Nightwish. Insomma, melodie sinfoniche e molto power: il tutto completamente inutile.
Il disco si conclude con la title track, che è un pezzone sinfonico strumentale trascurabile.
Emerald Seas è una scala dai gradini di diverse altezze, a tratti in discesa, a tratti in salita, che conduce l’ascoltare nel mondo instabile di Relatività di Escher. La band pare non avere le idee del tutto chiare sulla propria identità, ora presa in prestito da altre esperienze (i Kamelot su tutte), ora affannata d’affermarsi con trovate non sempre coerenti. Ma le potenzialità (e gli agganci) ci sono: la band è giovane e ha tutto il tempo per poterle valorizzare in un contesto più armonico e, in ultima istanza, personale.

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