Recensione: Emerson, Lake & Palmer

Di paolinopaperino77 - 3 Giugno 2004 - 0:00
Emerson, Lake & Palmer
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1970
Nazione:
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100

Il primo album degli ELP rappresenta una pietra miliare del rock, su questo penso che ben pochi siano propensi a discutere, ma questa affermazione non può certamente pretendere di racchiudere in sé i motivi per cui il disco in questione debba meritare l’ascolto e l’acquisto da parte di tutti coloro che amano il rock e la buona musica in generale, pertanto nelle righe che seguono mi appresterò a descrivere gli elementi salienti che fanno grande questa produzione.

Nati dall’unione di tre musicisti provenienti da grossi nomi della scena progressiva o protoprogressiva britannica (Keith Emerson – Tastiere, proveniente dai Nice; Greg Lake – Basso, Chitarra e Voce, proveniente dai King Crimson e Carl Palmer – Batteria, proveniente dagli Aromic Rooster), gli ELP si propongono di impostare un progetto quasi del tutto inedito nella storia rock/pop del periodo, ovvero quello della costruzione di un gruppo tastierocentrico e molto solido in grado di destreggiarsi con disinvoltura tra pop, rock, riletture classiche, ampie divagazioni strumentali e sperimentazioni sonore e timbriche, grazie soprattutto alle possibilità offerte dagli ancora giovanissimi sintetizzatori. Keith Emerson, vera icona del gruppo, aveva già tentato questa strada con i Nice (peraltro con alcuni apprezzabili risultati), ma i tempi forse non erano ancora maturi ed i compagni d’avventura forse non abbastanza all’altezza sicché la nuova formazione ed il suo esordio “Emerson Lake & Palmer” costituirono una nuova formidabile opportunità per il talentuoso e pirotecnico tastierista d’Albione.
Dopo poco tempo dalla sua formazione, il trio si trova già a suonare le prime date ed a preparare l’esordio discografico su cui molte aspettative vengono nutrite da pubblico e critica, vista la caratura dei musicisti coinvolti. Nel 1970 viene pubblicato “Emerson Lake & Palmer” e l’accoglienza è grandiosa ovunque, dentro e fuori i confini britannici.
Il disco si compone di sei brani, almeno due dei quali “Lucky Man” e “Knife Edge”, rimarranno cavalli di battaglia del gruppo per molti anni a venire. Ancora oggi, a distanza di oltre vent’anni, i suoni dell’album rimangono interessanti e le composizioni affascinano per la loro freschezza ed originalità. Il brano di apertura, “The Barbarian”, è un vero assalto heavy di Hammond supportato da una ritmica incisiva e da suoni ruvidi su cui Emerson innesta con energia l’omonimo tema del compositore classico Bartòk. Dopo l’aggressività iniziale, trova spazio un sipario pianistico dinamico sorretto da una sezione ritmica precisissima ma assolutamente poco invadente, perfetta per permettere ad Emerson di esprimere il suo virtuosismo, ma ben presto il tema iniziale riprende spazio e la composizione ci riporta con vigore a suoni decisamente più duri (chi l’ha detto che ci vuole per forza la chitarra?). Si prosegue con un brano dalla natura completamente diversa, ovvero la lunga “Take a pebble”, composizione delicata, poetica e sognante caratterizzata dal protagonismo della bellissima voce di Lake che incanta l’ascoltatore mentre Emerson ricama intarsi pianistici di squisita fattura e si lancia in un assolo coinvolgente. Anche all’interno di questa canzone troviamo una divagazione strumentale che rompe con il tema principale, si tratta questa volta di una parentesi quasi country che però ben presto ritorna all’eterea bellezza del tema principale. “Knife Edge” riporta il disco sui binari dell’hard progressivo, grazie ad una base ritmica energica e ad un uso sapiente dell’Hammond come strumento guida nel riffing e nella creazione dell’impatto sonoro. Lo spazio per una ulteriore esplorazione classicheggiante viene ritagliato nel cuore del pezzo grazie alla rilettura di un tema di Janacek (il che causerà perfino noie legali al buon Keith) ed anche in questa occasione il trio fa centro in pieno, mantenendo viva l’attenzione dell’ascoltatore e regalando una composizione sia orecchiabile che originale, frutto della grande abilità e dell’eccellente gioco di squadra del gruppo. Dopo i primi tre brani, però le coordinate dell’album si modificano ed Emerson prende completamente le redini della situazione ritagliandosi uno spazio tutto suo con “The Three Fates”, piccola suite divisa in tre movimenti di diversa natura e di diversa ispirazione. Si comincia con “Clotho” in cui il virtuoso tastierista si lancia in una breve quanto solenne manifestazione di barocchismo liturgico all’organo, creando un’atmosfera di solenne imponenza; il secondo movimento, “Lachesis”, è invece appannaggio del solo pianoforte e fa della leggiadria il suo maggior elemento caratterizzante, senza che Emerson dimentichi di ricordarci in ogni istante quale bravo pianista sia; l’ultimo movimento, “Atropos” richiama in gioco i compagni di squadra Lake e Palmer e riporta una verve decisamente rock nella composizione, portando vitalità ed energia laddove una maggiore calma aveva regnato poco prima. Si prosegue, tornando definitivamente al rock, con “Tank” brano nel cui incipit Emerson tesse un ricco barocchismo su un tappeto percussivo incalzante e preciso di Palmer, il quale fa di questa composizione la vera vetrina del proprio talento, senza che però i compagni scompaiano dietro le quinte, non per molto almeno. Nell’ultima parte del pezzo il gruppo torna ad esibirsi al completo ed Emerson inserisce una coda di sintetizzatore fino a quel momento mai utilizzata nel rock, non solo donando maggior fascino al finale, ma scatenando immenso interesse nel mondo musicale di allora ed ispirando centinaia di giovani tastieristi in tutto il continente. L’album si chiude con l’acustica, delicata e quasi ingenua “Lucky Man”, canzone orecchiabile tutta sorretta dalla chitarra e dalla voce di Greg Lake, e questo basterebbe a far apprezzare il brano ed a calare degnamente il sipario sul disco, ma sul finale l’intervento al sintetizzatore di Emerson scatena un colpo di coda impensato, emozionante e di grande effetto (sebbene casuale, leggetevi le note nel libretto del cd), il quale fa andare in brodo di giuggiole il pubblico ed apre gli occhi a molti sulle possibilità offerte dall’invenzione del signor Moog. In conclusione questo disco rappresenta l’inizio di una grande avventura musicale ed ogni suo brano è una piacevole esperienza, nonché la dimostrazione che molto c’era ancora da dire e da scrivere nella storia del rock quando Emerson, Lake e Palmer decisero di abbattere la dittatura della chitarra e di superare i confini della canzone pop/rock. Anche attraverso queste note passa la storia della grande rivoluzione musicale che si è compiuta tra gli anni ’60 e ’70, per cui comprate questo disco e fatene un monumento.

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