Recensione: Empath

Di Gianluca Fontanesi - 26 Marzo 2019 - 0:10
Empath
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2019
Nazione:
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88

Uno dei dischi più attesi del 2019 è finalmente arrivato ed è anche difficile scriverne, come sempre del resto. Quando si parla di Devin Townsend bisogna aprire un capitolo a parte, entrare in una cartella dedicata nel desktop della mente, abbattere tutti i preconcetti e le barriere e prepararsi ad affrontare un viaggio che, nel 99% dei casi, sarà unico e appagante. Una delle chiavi di lettura del genio canadese, come ben dovreste sapere, è la bipolarità e la sua capacità unica di architettare ossimori senza mai risultare artefatto o banale. Il Townsend pensiero è materia vasta e complessa e ci vorrebbero mesi per sviscerarla a fondo; Empath non va in una direzione ben precisa ma, contrariamente a tutti gli eventuali pronostici, va in tutte le direzioni percorse in carriera, ne fa un Bignami e come un terremoto frastorna l’ascoltatore per parecchi ascolti. Quando poi la tempesta si placa e la polvere cala, la visuale diventa chiara e finalmente l’opera si palesa per quello che è.

Nel 2002 ci si aspettava tantissimo dal seguito di Mario 64, e Shigeru Miyamoto mandò la sua creatura in vacanza con Super Mario Sunshine, che alla fine si rivelò un capolavoro di level design e tuttora un caposaldo dei platform tutti; il parallelismo con Empath scatta nel momento in cui anche Devin Towsend va in vacanza  e spedisce tutto il suo sound architettando un concept su un’isola deserta e con il classico naufrago come protagonista assieme a un ricco caleidoscopio di creature. Gli spoiler iniziano e finiscono qui; noi siamo solamente umili spettatori davanti ai fili mossi da un burattinaio grandioso.

Castaway è una piccola intro, che sfocia ben presto nel primo vero e proprio brano del lotto. Genesis, che già conoscete, è un capolavoro e una traccia dannatamente perversa. In pochi minuti ci sono tipo una ventina di stacchi piuttosto netti e altrettanti cambi di umore: si passa dal classico metal melodico alla Townsend al funky, dalla colonna sonora di serie c di un film di Bollywood di serie d a gorgheggi stile porno anni ’80, per poi passare dai più furiosi dei blast beat a inserti 8 bit e mettiamo anche gabbiani e miagolii che non fanno mai male. Questo è Townsend, in tutta la sua magnificenza, viene quasi da chiamarlo Sire.

Spirits Will Collide cambia drasticamente le carte in tavola dando notevole risalto al Coro Femminile Elektra, che sarà ricorrente per tutte le scorribande di Empath andandone a rafforzare e potenziare praticamente tutto. Di primo acchito sembra quasi un brano natalizio e le linee vocali hanno del clamoroso; il livello qui è altissimo e la capacità evocativa del brano è potenza pura. La struttura è lineare, classicissima ma necessaria e si rivela un altro centro perfetto.  Evermore passa inizialmente dal distorto all’acustico come bere un bicchiere d’acqua, poi vai col musical, accelerazione repentina e puro prog con voci femminili in grandissimo spolvero. Parte centrale allucinata con tanto di gabbiani, dissonanze e cori deliranti e un andamento che sembra una grandiosa satira sulla marzialità. C’è anche spazio per un finale in alternanza tra brutale e onirico, per non far mancare proprio nulla.

Sprite, a voler essere pignoli, è l’unico brano di Empath che possiamo definire poco riuscito. E’ un pezzo che inizialmente non convince a causa della sua impersonalità e timidezza; le voci filtrate e il riffing prog risultano poco convinti e poco memorabili. Il mood non molto interessante prova un po’ a rialzarsi nella seconda metà ma non riesce comunque ad andare oltre la sufficienza e un’aura piacevole ma nulla più.

Devin sembra quasi esserne al corrente e beffa l’ascoltatore premiandolo con un trittico delle meraviglie aperto da Hear Me. Da buona tradizione, dopo la quiete arriva la tempesta e qui sembra di essere catapultati dentro una variante di Deconstruction; la sezione ritmica è indemoniata e la strofa con l’immancabile Anneke al microfono è spettacolare. Il riff portante abbatte le pareti e si raggiungono nel ponte vette di brutalità che ricordano i mai troppo compianti Syl; ospite nel brano anche Chad Kroeger dei Nickelback e nel frattempo le legnate si susseguono in maniera devastante. Che siano arrivati i presupposti per un album estremo?

Ascoltando Why? si rimane basiti. Direttamente e senza passare dal via tra le migliori canzoni mai scritte dal genio di Vancouver. E’ un innaffiatoio di lacrime, di una bellezza inaudita, con un arrangiamento orchestrale zeppo di trovate, dettagli, effetti e chi più ne ha più ne metta. La sua collocazione ideale sarebbe in un cartone animato Disney a caso, provare per credere. Le linee vocali ridondanti, l’atmosfera e il sogno, la sola Why? vale il prezzo del biglietto e i vostri lettori cd faranno il solco sulla sua traccia. Meraviglia.

Borderlands aumenta il minutaggio in attesa del gran finale e rimane sempre lì, mantenendo una qualità compositiva inumana e una freschezza di idee che dopo 25 anni di carriera ha quasi del paranormale. Il brano è aperto da un gallo e da un incedere reggae, poi onirico, poi progressive e il ritornello è magnifico, sorretto da un riff che sembra quello di Hail The Apocalypse degli Avatar ma poco importa. La parte centrale è ambient e piuttosto ben riuscita e la ripresa poi del ritornello rialza il livello in maniera magistrale; finale onirico in perfetta linea col mood del pezzo.

Requiem è solo una seconda piccola intro a quello che è uno dei pilastri portanti di Empath: Singularity. Parliamo di una suite di oltre 23 minuti suddivisa in sei movimenti, dove succede praticamente di tutto . Si parte con una chitarra in solitario che tesse quello che poi sarà uno dei temi principali; impossibile non pensare alle atmosfere eteree di Terria specialmente con l’arrivo della chitarra acustica e la voce placida e pacifica di Devin. Il coro rafforza come sempre benissimo e la profondità del suono è come sempre pazzesca. Il brano cresce e accenna la sua linea portante; quando ci si aspetta l’esplosione cala ancora e infine si apre in tutta la sua magnificenza. L’incedere è apparentemente sornione e crea un tappeto sonoro pregevole intervallato da inserti elettronici e siderali; si stacca e si cambia umore in continuazione e la tensione è mantenuta a un livello piuttosto alto. Si ha sempre la sensazione che qualcosa stia per succedere e a un certo punto la batteria aggressiva in lontananza cresce fino a diventare un martello in blast beat. Nella singolarità fa capolino anche Steve Vai come ospite, e questa parte brutale del brano è assolutamente da manuale e in grado di mandare tutti al manicomio. Si torna poi in una dimensione solare e onirica con tanto di uccellini e ci si piomba dentro con una naturalezza disarmante con anche un pregevolissimo excursus nel prog anni ’70. Una parte cinematografica con qualche esigenza di trama è propedeutica al gran finale, che propone una linea vocale meravigliosa e che va a porsi come ciliegina sulla torta di un lavoro che non finisce mai di stupire.

Cos’è quindi Empath? Settanta minuti di non ce n’è per nessuno, e se vi piace Sprite, settantacinque. Il precedente Transcendence non era completamente a fuoco e il buon Devin non sforna capolavori praticamente da Deconstruction; qui le cose sono decisamente diverse ed Empath torna ai livelli inumani e a dettare legge praticamente in tutti gli ambiti. Molte band con le idee contenute in un solo brano di questi comporrebbe un disco o addirittura una carriera; molte altre menti invece Empath non sono nemmeno in grado di pensarlo, figuriamoci di scriverlo. Devin Townsend quando è ispirato può qualsiasi cosa, non aveva bisogno di dimostrarlo e nonostante tutto lo dimostra ancora. In sede di valutazione l’unico metro di giudizio per giudicare Townsend è Townsend stesso; il resto del mondo gira a ritmi totalmente diversi e ogni paragone sarebbe fuorviante quanto inesatto. Empath è un disco che presenta tantissimi stili diversi e può tranquillamente essere considerato come un biglietto da visita di tutta la carriera di Devin. Volete conoscerlo? Volete avvicinarvi a lui ed entrare nel suo mondo? Empath è un inizio perfetto e ben bilanciato, in grado di offrirvi tantissime facce del suo sound e di quello che riesce a creare. Se invece siete già fan verrete in primis annientati poi adorerete questo disco alla follia. A nostro avviso non sfigura in un sottoinsieme dove in ordine sparso fluttuano Synchestra, Ocean Machine, Terria e Deconstruction. L’unica cosa che rimane da dire, per l’ennesima volta, a Devin Garrett Townsend, è grazie.

Everyone into forever
Everything a part of me
Dancing all into whenever
Effervescent quality

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