Recensione: Empire of the Blind
Fuoriusciti dal periodo d’oro della Bay Area, gli Heathen tornano oggi, dopo una decade dal loro ultimo album in studio, con “Empire of the Blind”. Storia complicata, quella degli Heathen: dopo lo scioglimento degli anni ’90 con due ottimi album all’attivo, gli americani si riformano nel nuovo millennio pubblicando però solo due lavori, l’esplosivo “The Evolution of Chaos” del 2010 (già trattato anche su questo sito) e questo “Empire of the Blind”, in uscita a giorni.
Scorrendo la scaletta, la prima cosa che salta all’occhio è la durata dell’album, qui decurtata di ben venti minuti rispetto al suo predecessore: “Empire of the Blind” è scandito da canzoni brevi, dirette, che lo tengono all’interno del canone aureo dei tre quarti d’ora, ma non è certo l’unica differenza. Nonostante i nostri continuino a macinare pesanti dosi di thrash metal, infatti, qualcosa è cambiato: la miscela degli Heathen viene screziata, stavolta, ricorrendo ad elementi accostabili al U.S. power e persino a quel modern metal che negli ultimi anni ha scalato gli indici di gradimento ‘mmeregani. Le velocità fotoniche del thrash classico vengono meno per far spazio a tracce più ritmate, dotate di ottime melodie e, spesso, anche ritornelli accattivanti, ma non mancano nemmeno delle belle frustate per scapocciare in libertà. Il risultato è un metallo melodico ma anche iracondo e immediato, che non si perde in ciance ma nonostante la facilità di assimilazione rivela anche diverse sfaccettature.
A pensarci bene niente di cui stupirsi: gli Heathen ci hanno sempre abituato a lavori nettamente sopra la media a livello qualitativo, e devo dire che anche in questo caso si divertono a miscelare elementi diversi per creare un album omogeneo, dinamico e bello pastoso. La vena prog dei nostri si palesa solo di tanto in tanto, limitandosi a lavorare più sotto la superficie dei pezzi. A guarnire tutto la spettacolare voce di David: potente, aggressiva e dotata della giusta dose di rabbiosa ed anthemica sfacciataggine, perfetta per il genere. Aggiungete temi di critica sociale (pur non essendo un concept, molti dei testi trattano vari aspetti del mondo contemporaneo, delineando uno scenario distopico e sconfortante attraverso temi ambientali, politici, sociali e di costume) e il piatto è pronto.
Come scrivevo poco più in alto, la melodia non manca mai in questo “Empire of the Blind”, e rispetto al passato si fa anche più leccata, se mi si passa il termine, ma non fatevi ingannare: la base su cui gli Heathen si muovono, seppur agghindata a dovere, è ancora cocciutamente thrash. Ci se ne accorge da subito, quando, superata la superflua intro “This Rotting Sphere”, si parte a spron battuto col riff arcigno di “The Blight”: strofa agguerrita e apertura melodica nel ritornello fino al rallentamento centrale, che la butta sul groove prima del solo e del ritorno al trionfalismo in tempo per il finale. La title track parte più o meno nello stesso modo, con un riff compresso che si distende in un secondo momento su linee più melodiche, trovando compimento nel ritornello dal retrogusto maestoso. “Dead and Gone” rallenta per puntare sulla sfacciataggine condendo il tutto con assoli brevi ma dinamici. Anche la successiva “Sun in My Hand” si sviluppa su tempi lenti, compatti, cadenzati, infarciti di arpeggi solo apparentemente distesi squarciati all’improvviso dal coro più enfatico, mentre “Blood to Be Let” rialza – seppur di poco – i giri del motore per farsi largo con determinato dinamismo, dispensando melodie acide e assoli fulminei. “In Black” parte agguerrita, mostrando i muscoli e mettendo in primo piano il muro di suono del gruppo e l’ottimo lavoro delle chitarre, mentre con “Shrine of Apathy” i nostri scelgono un’altra strada. La canzone non è propriamente una ballata, ma i tenui arpeggi iniziali e la voce più morbida di David la rendono una traccia quasi languida ma al tempo stesso inquieta; col procedere del minutaggio la canzone prende corpo ma non perde mai quell’aura sottile di turbamento che la caratterizza. Un riff quasi beffardo apre “Devour”, che poi si distende su un tappeto, di nuovo, classicamente thrash. La traccia (tra le più brevi del lotto) saltella tra parti aggressive ed altre caratterizzate da un groove stradaiolo, in cui di tanto in tanto torna a farsi sentire la melodia iniziale. Si prosegue con “A Fine Red Mist”, ottima strumentale che mette in mostra il gusto del gruppo per gli intrecci chitarristici e le scelte melodiche ma che non si smarca del tutto dall’effetto “canzone senza testo”, che pertanto me la fa apprezzare un pelino meno di quanto meriterebbe. L’ultima canzone vera e propria di “Empire of the Blind” è “The Gods Divide”, altra scudisciata thrash in cui gli Heathen infondono tutte le loro caratteristiche per accomiatarsi dal loro pubblico con la giusta arroganza, fondendo ritmi aggressivi, cafonaggine nei cori e melodie maschie.
Il sipario si abbassa sulle note dell’outro “Monument to Ruin”, che riprende la melodia d’apertura donandole un sapore più dimesso e chiudendo idealmente il cerchio su un album forse non troppo coraggioso ma sicuramente godibilissimo e molto ben fatto. Pur giocando molto spesso sul sicuro, “Empire of the Blind” costituisce comunque un ottimo tassello per la discografia degli Heathen: immediato e diretto senza scadere nella banalità usa e getta, suona moderno ma al tempo stesso dotato di un certo gusto rétro (buona parte dell’album era già praticamente pronta nel 2014, stando a Kragen Lum) e di sicuro piacerà ai cultori della musica dinamica e agguerrita. Per come la vedo io non arriva ai fasti del suo predecessore, ma resta comunque un gran bel lavoro.