Recensione: Enfant De La Nuit
«Mi guardate, con i vostri occhi lucenti.
Mi entrate nell’anima, con i vostri pensieri.
Mi ampliate i sensi, con la vostra forza.
È l’Era della Solitudine»
Così, come l’alito di Dio che ha dato la vita ad Adamo, la brezza compositiva dei meravigliosi Ixion genera visioni incontrollate, mirabili, sterminate, nella mente di chi ha la fortuna di ascoltarli. Era così per l’Opera Prima “To The Void” (2011), è così per il suo naturale, logico seguito, “Enfant De La Nuit”.
L’incredibile allucinazione musicale di Julien Prat, anima e corpo del due transalpino, non mostra alcuna interruzione nella propria intensità, benché siano passati cinque anni fra una sua creatura e l’altra. Stavolta, il leit motiv sono i mirabolanti sogni di un bambino addormentato, la cui ampia finestra della sua nave interstellare dà direttamente sull’abisso spazio-temporale che traccia la linea della vita di ciascun essere umano in maniera univoca. Il lisergico disegno di copertina proietta il pensiero al di là delle galassie, dove nascono, vivono e muoiono i sogni. Dove c’è l’incontro fatale, quello con la non-esistenza, o, se si vuole tagliare in modo meno drammatico in concetto, quello con l’Era della Solitudine. Ed è proprio la suite finale, “Odyssey”, capolavoro, a fornire a chi ha il cuore sensibile e puro la chiave per comprendere le tappe dell’odissea della vita. La maestosità del doom atmosferico concepito da Prat raggiunge mirabili vette di commozione, trasfigurando l’esistenza terrena in spirito eterno. Che non è quello della coscienza, caduca come la carne, ma quella dell’arte di Euterpe.
Eterna, come la musica degli Ixion.
Le linee vocali del growling lacerato di Prat, che si fondono con quelle pulite di Yannick Dilly, sono come un nocchiero che prende le anime da una parte e le trasporta dall’altra. Da una parte c’è la realtà, con le sue brutture, miserie, sofferenze e atrocità. Dall’altra ci sono i sogni della notte, i sogni dello spazio profondo. Ove fluttuano nel vuoto brandelli di roccia, misteriosi protagonisti delle ferree leggi che governano la materia. Ove, alla fine del percorso, l’Era della Solitudine protegge come una divinità spirituale ciò che rimane di ciascun’essenza. È il momento, allora, di immergersi con fiducia e senza paura nella perdizione totale di song profonde come l’immensità stellare.
“Discovery” e “The Shining”, per menzionarne due a caso, baluginano di aurore australi, boreali e di auree solari, rese visibili grazie alla metafisica presenza di sterminati altopiani ubicati su terre aliene, disegnati nei contorni dalle tastiere. Concretizzati in solidi diedri dai riff ipnotici, possenti e pesanti della chitarra. Inspessiti dal rombare del basso che, come un terremoto, ne disegna la geografia a seconda delle indicazioni del disperato growling di Prat.
Il doom atmosferico degli Ixion non è così atmosferico, nel senso che sono molti i passaggi potenti, i cozzi apocalittici che ridisegnano l’astrazione che ha condotto l’Uomo, nel corso dei secoli, a immaginare il proprio raggio di azione psico-fisico sempre e comunque limitato, invaso peraltro da sensi colposi, castranti. Invece no, gli Ixion rammostrano che il loro stile metallico è in grado di superare, con forza e relativa facilità, l’arcaica concezione dell’Universo come semplice meccanismo galileiano dall’infinita reiterazione degli stessi identici movimenti. Equinozi e solstizi non valgono più, nel continuum delle quattro dimensioni in cui si librano le song di “Enfant De La Nuit”.
Ixion è la proiezione astrale della materia…
Ixion è la musica dei sogni…
Ixion è…
Daniele D’Adamo