Recensione: Enslaved

Di Daniele D'Adamo - 15 Aprile 2016 - 15:41
Enslaved
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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58

Brutal death metal.

Così definiscono il loro stile i greci Murder Mad God, riferendosi al sound di “Enslaved”, secondogenito che segue di tre anni il debut-album “Irreverence”.

Precisazione dovuta, poiché in effetti di brutal si tratta, anche se – per l’appunto – incrociato, almeno a parere di chi scrive, sia con il deathcore, sia con il technical death metal. Una ridda di definizioni che possono creare solo confusione. Poiché, alla fin fine, stringendo stringendo, i Murder Mad God, fanno semplicemente metal estremo moderno.

Molto, estremo.

Suoni secchi, taglienti, che sanno di cozzi fra acciai tirati a lucido, duri, puliti. I quattro di Thessaloniki picchiano pesantissimo, sull’incudine, generando scintille a ogni battuta. Ma, nondimeno, incidono con precisione chirurgica, all’interno della loro officina di tornitura sonora. Una perfezione esecutiva che, in pieno 2016, è uno dei requisiti-cardine per offrire un prodotto tecnicamente adeguato ai palati, ormai finissimi, dei cultori dell’oltranzismo metallico.

Chitarra, basso e batteria erigono un impenetrabile muraglione di suono, realizzato con cura maniacale per i dettagli ma soprattutto dal peso specifico insostenibile per i normali adoratori di Euterpe. Un sound addirittura doloroso, privo com’è di qualsiasi accenno melodico. Ricco al contrario di accidenti musicali, di strappi, di disparità ritmiche e, ultima ma non ultima, di brutalità. Di genuina, brutalità. Per nulla addomesticata dall’enorme perizia tecnica di cui sono dotati i Nostri (per esempio, ‘Depression’). Per niente alleggerita, nemmeno, quando i BPM divergono oltre la sfera del suono (‘Assassinés!’), oppure in occasione dei complicati intarsi cesellati al calor bianco dalla sei corde di Dennis (‘Subject 666’).

Tutto quanto, purtroppo – per loro – , non ci mette nemmeno tanto a diventare noioso. Tanta è la bravura esecutiva messa in campo in “Enslaved”, tanta è la scolarità compositiva, cioè. Più si corre da ‘Victims’ a ‘Involuntary Servitude’, e viceversa, infatti, e maggiore è la voglia di passare ad altro. La difficoltà a digerire il platter è senza dubbio endemica nella sua stessa natura, tuttavia è anche vero che i suoi brani non offrono granché da mettere da parte, in memoria. 

La bontà del sound del disco stesso si manifesta, appunto, con l’ottima continuità stilistica che lega i suoi pezzi. Che, di contro, quasi paradossalmente, li porta a somigliare pericolosamente l’uno con l’altro. Troppo. Con che, il malloppo diventa, dopo nemmeno tanto tempo, identificativo di un ensemble privo di personalità. Accumunabile alle centinaia di altri che, pur essendo ai vertici mondiali dell’abilità metodologica, non lasciano e non lasceranno alcuna traccia di sé, sulla Terra.

Daniele D’Adamo

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