Recensione: Epic Obsession
Terzo disco per i Burning Rain, figliocci dei validi Bad Moon Rising di Doug Aldrich, chitarrista nomade di lusso attualmente in forze ai Whitesnake, ma forte di band come Dio e House of Lords nel proprio curriculum.
Epic Obsession rompe un silenzio durato a lungo, se è vero che i primi due (ottimi) dischi del gruppo risalgono rispettivamente al 1999 (l’omonimo Burning Rain) e al 2000 (Pleasure to Burn). A conti fatti, tuttavia, il tempo non pare passato, con la band americana sempre impegnata nel suo heavy-rock granitico che fa del groove il proprio punto di forza.
Il modello principale di riferimento sono evidentemente i Whitesnake, di cui vengono ricalcate melodie e attitudine con indubbia maestria professionale, ma anche con qualche lacuna di troppo, denotata da un songwriting eccessivamente derivativo. Altra influenza notevole sono i Mr. Big più aggressivi, soprattutto in virtù di certi arrangiamenti che evidenziano, senza ostentare, la tecnica sopraffina della band.
L’eccellente produzione è volutamente non laccata e riesce nell’intento di valorizzare al massimo l’approccio roccioso della band, catapultando idealmente l’ascoltatore nel bel mezzo della sala prove del gruppo.
I primi tre pezzi sono da manuale dell’heavy-rock testosteronico, benché non inventino proprio nulla di nuovo e, in definitiva, non facciano scaturire nell’ascoltatore la voglia di ripercorrerli a più riprese.
Pur ponendosi nel medesimo filone, Heaven Gets Me By si discosta un poco dagli abusati stilemi ora menzionati e richiama certe melodie che furono dell’hard rock più blueseggiante in voga negli anni precedenti la fine della festa determinata da un certo Kurt Cobain. Non a caso, una delle bonus track dell’album è proprio la versione acustica di Heaven Gets Me By, quasi a ribadire il richiamo ai tempi in cui i dischi unplugged dominavano.
Il disco scorre senza scossoni, alternando buoni pezzi ad acuti (Our Time is Gonna Come è eccellente) e a momenti dimenticabili che sanno davvero troppo di già sentito (My Lust Your Fate e la banale Made For Your Heart).
Nella propria ortodossia, la ballad conclusiva When Can I Believe In Love ben riassume quelle che sono le caratteristiche principali del disco: completa aderenza a un genere altamente definito, melodie non troppo originali e grande feeling veicolato da magistrali prove strumentali.
Trascurabile, infine, l’ennesima cover di Kashmir, moscia bonus track che sarebbe stato più dignitoso non pubblicare.
Certamente Epic Obsession è un prodotto professionale e piacerà molto a quanti apprezzano un genere che sa resistere al proprio incanutimento. Tuttavia, il disco sembra mancare di canzoni capaci di emergere, imporsi e, in ultima istanza, sopravvivere. In tempi di fruizione musicale mordi-e-fuggi, può essere un difetto non da poco.