Recensione: Epicloud
Devin Townsend è stato per tanti anni sinonimo di genio e sregolatezza in campo heavy metal: era difficile riuscire a immaginare che potesse esserci la stessa, unica, mente dietro ad album così diversi come quelli degli Strapping Young Lad e quelli da solista che vi si alternavano con cadenze strettissime. Diventava, tuttavia, meno complicato una volta entrati in confidenza con il linguaggio e l’immaginario di questo straordinario artista, mezzi peculiari ed indispensabili per permettere al suo infinito talento di venire a galla. Erano gli anni dell’iperproduttività (nove album tra il 1997 e il 2004), dell’abuso di droghe e di una certa instabilità mentale manifestatasi a più riprese: nel 1997 gli venne, infatti, diagnosticato un disturbo bipolare, mentre nel periodo 2006-2007 fu la volta di un crollo nervoso che portò allo scioglimento degli Strapping Young Lad e ad un periodo di pausa che durò per tutto il 2008.
L’anno successivo fu l’anno della rinascita, quantomeno dal punto di vista “umano”, perché dal lato artistico, anche laddove Townsend si sia detto poco soddisfatto dei risultati ottenuti (“The New Black”, “Psychist”), pubblico e critica non hanno mai ravvisato un reale decadimento della proposta del Mad Canadian, trovandovi ogni volta numerosi motivi di interesse. Largo, dunque, al “nuovo” Devin: via il caratteristico “skullet”, il look trasandato e, soprattutto, niente più legami con quelle droghe che – per sua stessa ammissione – offuscavano la sua capacità di ragionare e di prendere decisioni.
I nuovi lavori, da allora usciti sotto il monicker Devin Townsend Project, hanno cercato di allontanarsi in maniera piuttosto marcata dalle vecchie sonorità e soprattutto dal vecchio approccio, pur manifestando una certa dualità, evidentemente tipica, tra elementi contrapposti tanto della sua personalità, quanto della musica che ne rappresenta l’ovvio riflesso. La prima tranche ha visto uscire in contemporanea “Addicted” e Ki”, completati poi dall’uscita, a distanza di due anni, di “Ghost” e “Deconstruction”. A livello di sonorità “Addicted” e “Deconstruction” sono i più tosti pur risultando, per certi versi, diversissimi da ciò che Devin ci aveva abituato a farci ascoltare negli anni. Evidente in “Addicted” l’importanza della componente “fun” che porta Devin a comporre più che un album un divertissement in cui, accanto a non indifferenti bordate di prog/post thrash come “Addicted!” e “Universe In The Ball!”, trova spazio il pop ipermelodico e cartoonesco della discussa e ormai celebre “Bend It Like Bender!”, un brano difficile da immaginare all’interno di lavori dal flavour decisamente più serioso come “Terria” o “Accelerated Evolution”. “Deconstruction” si configura, al contrario, come il lavoro più criptico della tetralogia (e forse dell’intera discografia del Mad Canadian), quello in cui all’aggressività tout court della musica viene preferito il totale (e comunque minaccioso) ermetismo delle trame e in cui il già incredibile spettro espressivo di Hevy Devy, si amplia fino alle aperture di taglio symphonic/black di “Sumeria”, passando per il death sporcato di black e gothic di “Pandemic” e per la follia totalmente schizoide e quasi inintelligibile di “The Mighty Masturbator”. “Ki” e soprattutto “Ghost” ne rappresentano il voluto contraltare, con le loro atmosfere eteree e i frequenti sconfinamenti extra metal; addirittura, “Ghost” è un album in cui a dominare tutto è l’ambient, una di quelle influenze che hanno sempre fatto parte del DNA towsendiano ma che qui se ne esce allo scoperto consegnandoci un disco quasi interamente strumentale, del tutto estraneo all’heavy metal, fatto di atmosfere soffuse e di sensazioni in continuo fluire già accennate su un album come “Terria” ma mai utilizzate in maniera così massiva. E, diciamocela tutta, anche un po’ pedante per il metalhead medio che, pur ravvisando svariati spunti interessanti disseminati lungo tutti e quattro gli album, probabilmente in più di un’occasione avrà provato un po’ di nostalgia per i tempi in cui Hevy Devy tutte queste idee le faceva confluire in unico album con perfetto senso dell’equilibrio e senza mai dare la sensazione di strafare. Sensazione che a volte affiora tra i solchi di “Ghost” e soprattutto di “Deconstruction”, un album davvero complesso e per certi versi indecifrabile, anche per gli standard di uno come Devin Townsend e in cui i tanti spunti risultano declinati in una forma ancora meno fruibile del solito.
Che dire dunque? Se da un lato possiamo essere certamente felici per Devin e per il suo ritrovato equilibrio mentale e spirituale, dall’altro lato, da appassionati, dobbiamo anche prendere atto del fatto che, con ogni probabilità, il Devin Townsend claustrofobico e paranoico, ma nel contempo epico ed immaginifico di otto-dieci anni fa sia ormai soltanto un ricordo. Per fortuna, la classe non è acqua né è, di certo, evaporata alla luce del sole in questi anni e oggi Hevy Devy ce ne dà molteplici dimostrazioni all’interno di “Epicloud”, un album più comprensibile degli ultimi due che potrebbe riuscire nell’ardua impresa di mettere d’accordo sia i fan della prima ora sia i nuovi adepti.
“Effervescent” è l’ennesima mattana made in Townsend: 44 secondi di cori a cappella, con una certo retrogusto à la Queen a metà tra il tronfio e la burla, fanno da intro a “True North”, un brano all’insegna di melodie zuccherine e tipici cambi d’umore di marca industrialoide in cui si rinnova il sodalizio con la bella cantante olandese Anneke Van Giersbergen (ex The Gathering). Con “Lucky Animals”, il suo riff saltellante e il refrain tutto da ridere, Devin dà proprio l’idea di divertirsi un mondo nel riproporre in chiave ironico/parodistica molti degli elementi stilistici da sempre tipici del suo marchio di fabbrica. Sostanzialmente nulla di inedito, dunque, ma una buona attitudine ludica che rende i brani per ora piacevoli e divertenti.
Il riff di “Liberation” rockeggia a a tutta birra strizzando l’occhio all’hard rock e allo street metal E impastando il tutto con il vocalismo straniante e maestoso di Devin: l’effetto è nel contempo geniale e schockante. “Where We Belong” ci riporta ai tempi di “Terria” e di “Accelerated Evolution”, un buon pezzo “dei suoi”, cui tuttavia forse manca quella scintilla che rendeva non grandi, ma grandiosi quei pezzi; si sente in particolare la mancanza di qualche passaggio vocale sottolineato dal mai troppo lodato growl/screaming townsendiano a colorare il pezzo in maniera davvero unica.
“Save Our Now” ha una melodia semplice ma efficace che vi perseguiterà per giorni e giorni, mentre “Kingdom”, riedizione della traccia presente su “Psychist” (2000), ha qualcosa, non a caso, degli Strapping Young Lad, seppur da un’angolazione differente. Notevole la prestazione vocale di Devin, con la sua inarrivabile ugola ad inerpicarsi sulle scoscese pareti create da un tappeto sonoro all’incrocio tra ambient, industrial e death metal. Di converso “Divine” è più simile ad una ninna nanna, una nenia solare e aggraziata che si oppone con tutta la sua leggiadra dolcezza alla tempestosa “Kingdom”.
Anneke Van Giersbergen ritorna protagonista in “Grace”, chiamata a contrapporsi con le sue vocals sognanti a delle compattissime sfuriate rette da pattern ritmici che non dispiacerebbero ai Periphery, una band che di certo Devin ha influenzato in maniera piuttosto evidente; Il solito equilibrio degli opposti tipicamente towsendiano, seppur declinato in una forma leggermente diversa dal solito anche grazie all’ausilio della voce celestiale di Anneke. La vera sorpresa giunge, tuttavia, con “More!”: finalmente quel colpo di classe e genio che tutti ci attendevamo e che era stato più volte finora sfiorato su “Epicloud” pur senza essere finora centrato sul serio. Ve lo immaginate un impasto di chitarre dalle timbriche djenty, percussioni di stampo death metal, improvvise virate nel rock ‘n’ roll che farebbero invidia al Michael J. Fox di Ritorno al Futuro e ritmiche thrash metal old school che fanno da ponte di collegamento, il tutto immerso in quelle tipiche atmosfere a metà tra colonna sonora di un film di Tim Burton e la musica russa? Ecco, se non ci riuscite, Devin l’ha creato apposta per voi e, che ci crediate o no, suona incredibilmente bene!
“Lessons” è un intermezzo breve quanto azzeccato, mentre “Hold On” ha l’ispirazione e, perché no?, la grazia del Townsend dei tempi migliori, baciato in fronte da una Musa particolarmente generosa di effusioni a questo giro. La musica è splendida, senza troppi giri di parole e se le atmosfere che Devin riesce a creare non sono più così imprevedibili come potevano essere dieci-quindici anni fa, la capacità di evocare emozioni vere con uno stile peculiare e ormai consolidato, è rimasta stupendamente inalterata. Indubbiamente uno degli high-light di “Epicloud”.
Chiude alla grandissima “Angel”, di nuovo sulle eteree coordinate di “Hold On” e anche questa volta con la pertinente partecipazione di Anneke alle vocals; un tripudio di metal futuribile eppure di una luminosità accecante, forse perché oggi, nel 2012, Devin Townsend non è più il cantore degli incubi di fine millennio ma un uomo sulla quarantina, uscito da un periodo buio della propria vita e finalmente in grado di guardare al futuro con rinnovata fiducia. Fiducia che sembra in più d’un occasione riflettersi anche nella sua musica, senza tuttavia lasciare del tutto da parte quel velo di inquietudine che da sempre costituisce parte della sua identità. Un altro grande album, insomma, in cui questo talentuoso musicista, soprattutto verso le battute finali, ha dimostrato ancora una volta di saperci fare come pochissimi altri. Thank you, Mr. Townsend!
Stefano Burini
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Tracklist
01. Effervescent!
02. True North
03. Lucky Animals
04. Liberation
05. Where We Belong
06. Save Our Now
07. Kingdom (traccia presente su “Psychist”, 2000)
08. Divine
09. Grace
10. More!
11. Lessons
12. Hold On
13. Angel
Line Up
Devin Townsend: voce, chitarre, tastiere
Anneke Van Giersbergen: voce
MIke Young: basso
Ryan Van Poederooyen: batteria
Dave Young: chitarre, tastiere