Recensione: Epitaph
Nati nel 2001, sei full-length compreso questo, l’ultimo; una carriera costante nella proposizione di musica di ottima qualità, suonata con piglio totalmente professionale. Eppure, sottovalutati. Anzi, super-sottovalutati. Chi? I Pyramaze!
“Epitaph” è il loro nuovo pargolo, sublimazione di un’esperienza quasi ventennale nei tortuosi meandri del metal. Metal. Sì. Perché malgrado essi siano sempre stati accomunati al power metal, la loro classe indiscutibile, nonché assai elevata, consente di alzarsi dalle mere definizioni che, a volte, come in questo caso, ingabbiano talenti straordinari.
Il quintetto danese, insomma, sfugge un po’ da tutte le classificazioni poiché, in primis, del power hanno assai poco se non la potenza, appunto, che si sprigiona dalla loro musica. Una potenza perfettamente bilanciata in tutte le singole parti strumentistiche. Niente doppia cassa a dettare un ritmo sempre uguale, insomma. Il che deve guardarsi come elemento di originalità e non come una denigrazione di coloro i quali utilizzano questo approccio tipicamente power metal, per l’appunto.
No, i Pyramaze fanno metal. Moderno, con robusti innesti di orchestrazioni ma sempre metal. Dannatissimo metal. Come, a parere di chi scrive, dovrebbe essere nelle forme più avanzate che strizzano l’occhio al futuro. Il che non è semplice in sé ma che è non è stato così difficile per un act che ha saputo abilmente evolversi, non a caso, in sintonia con il tempo che passa.
Un sound possente, profondo, spesso, che sprizza eleganza da tutti i pori, aiutato in questo da un cantante dalla bravura sopra le righe, e cioè Terje Harøy. Assolutamente perfetto in tutte le tonalità affrontate durante lo svolgimento del disco, mai in difficoltà, al contrario capace di trasfondere nelle linee vocali un’enorme sicurezza nei propri mezzi. Un abile nocchiero che trasporta i suoi compagni in un’avventura che supera l’ora di durata. Non c’è solo lui, ovviamente, a rendere maestoso il suono dei Pyramaze, ma il fior fiore di artisti assolutamente irreprensibili nell’eseguire ciascuno le proprie parti. Con particolare menzione per Jonah Weingarten, il tastierista, gigantesco quando innalza al massimo il peso specifico del suddetto sound con l’innesto di splendide orchestrazioni. Senza nemmeno dimenticare i chitarristi, eccellenti sia nella fase ritmica, sia in quella solista, e il bassista, carburante atomico per la grande energia erogata nel suo complesso.
Se però si deve appuntare un encomio speciale al combo di Hjordkær, è per un clamoroso talento compositivo, in grado di sviluppare dodici brani (compreso l’incipit che dà il nome all’album) di grande consistenza e personalità. Già in passato si erano notate tracce di ottima fattura, ma è solo qui che esse si susseguono senza cali di tensione. Niente riempitivi, niente filler scolastici. Niente di tutto ciò: “Epitaph” brilla come una stella alimentata da formidabili passaggi di singoli episodi, pienamente sviluppati nella loro forma classica del rock. Strofe, ponti e ritornelli si susseguono senza alcuna soluzione di continuità per dar vita a un’opera elaborata sulla base di entità univoche che, dopo qualche passaggio, s’incuneano negli strati più lontani della mente, per rimanervi a lungo, forse in eterno. Refrain per nulla stucchevoli o banali o easy listening, che si allineano alla completezza a tutto tondo di un act che fa di un’adulta musicalità il proprio marchio di fabbrica. Il songwriting, per meglio dire, non è mai scontato, mai prevedibile, mai noioso. Passata sotto la lente d’ingrandimento una song, c’è l’attesa per quella seguente. E ciò anche quando LP è entrato nell’anima e nel cuore, per una longevità senza limiti.
Sino a quando, improvvisa come una cometa che disegna la sua linea nel cielo, sorge come alba fra i boschi ‘World Foregone’, incredibile, formidabile, leggendaria canzone. Una di quelle che vengono fuori una volta ogni tanto. Frutto di un virtuosismo cerebrale attivato da un’attività neuronica ignota ai più. Perché non si spiegherebbe altrimenti l’atto mentale dal quale sgorgano come acqua di sorgente note e accordi che strutturano qualcosa di unico al Mondo. Un qualcosa che costringe l’ascoltatore a immergersi in esso decine e decine di volte, sempre e comunque palesando una sincera commozione per il privilegio di toccare con mano qualcosa di così grande; immenso nello sfavillio di un visionario e trasognante coro di voci innocenti. Quelle dei bambini. Capolavoro assoluto. Capolavoro indimenticabile.
Così, i Pyramaze suggellano la bellezza di un LP che non può assolutamente mancare negli scaffali di ogni appassionato di metal. Un LP che, si spera, restituisca loro la dignità e il valore di una band al di fuori dalla norma, dell’ovvietà, della noia e della prevedibilità.
Stupendo. Semplicemente.
Daniele “dani66” D’Adamo