Recensione: Epitaphs

Di Andrea Poletti - 12 Novembre 2016 - 4:22
Epitaphs
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2016
Nazione:
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80

Cammini leggero su di un pavimento fatto di petali di rose nere, la luce ha deciso di lasciarti sospirare e percepire il quel che latitante respiro attraverso il gelo cupo. Nonostante l’abbandono, la carenza e l’assenza di qualsivoglia forma vitale intorno qualcosa rimbomba in lontananza; un urlo sordo, uno sguardo cieco metafisico ed incompiuto ti guarda. Cosa si cela dietro il velo dell’apparenza? Un’epigrafe su cui v’è scritto Obscure Sphinx, comprendi solo dopo la scoperta di essere dentro un reliquiario di ossa e speranze. Prendi forza a sufficienza per ascoltare, senza ricordare, la “Madre del vuoto” è distante tre anni ed ora bisogna affrontare nuove sfide. Ci saranno riusciti i nostri ad andare oltre? Riuscirò a sentire freddo, a sentirmi volontariamente male, a cadere in quel vortice che non porta altrove se non a dimenticare di essere. Taci ora. Play.

Le sonorità più morbide, delicate ed intime senza mai rinunciare alla bellezza delle badilate nei denti, la duchessa ha ripreso possesso delle corde vocali; si percepisce una sostanziale miglioria a livello compositivo, una ulteriore progressione verso lidi “post” ancora decisamente inflazionati dalle correnti del doom più arcaico. Proprio il doom su cui tutto si poggia lascia entrare entro il suo seno decine di influenze, ritmiche incessanti e tenebrose, riffs che alternativamente riprendo fiato entro i meandri dello stoner, del progressive vero e proprio per balzare oltre, ancora più in là. Una catarsi infinita entro cui appoggiarsi e decidere serenamente se lasciarsi avvolgere dalle sonorità create o provare a districarsi. Gli Obscure Sphinx hanno necessità di tempistiche lunghe, di un dosaggio centellinato e ben curato, brani indottrinati arteriosi e di indomabile capacità tecnica; un mantra viscerale, come le due lunghe ‘Nothing Left’ da tredici minuti e la successiva ‘Memories of Falling Down’ di altrettanto minutaggio. Un animale che vive in profondità, la bestia degli abissi che retrocede in posa d’attacco prima di sferrare l’assalto finale vive tra queste note. Le campane funeree di ‘Memorare’ lasciano alle spalle i rimasugli di un cammino fatto di cenere e ricordi prima che quel doppio pedale ci incanali dentro un canovaccio di sofferenze pronto ad essere completato dal nostro sangue. Memorie liturgiche per uomini corrotti. Nelle retrovie i Tool fanno capolino grazie a ‘Sepulchre’ senza mai arrivare al plagio vero e proprio, senza eccedere dove altri in passato hanno errato. La lunga nenia si chiude con dieci minuti d’applausi alla sofferenza: ‘At the Mouth of the Sounding Sea’ echeggia dentro un labirinto cerebrale ed incompreso; la nostra musa canta come non ci fosse un domani, il suo pulito è la melodia delle sirene per l’ultimo viaggio mortale. Tanto sensuale quanto brava e tentacolare, una vedova nera che attorciglia e soffoca mentre inerme non riesci più a divincolarti durante l’ascolto. Stupefatto, immobile e ammaliato così ascoltare la voce di Wielebna è un cantico assoluto per regalarci qualche momento di gioia, magistrale interpretazione. La maturazione del gruppo è palpabile, un sentiero intrapreso sin dal primo album targato 2011 (“Anaesthetic Inhalation Ritual”), una costante conferma di come il “New Blood Award” del 2012 non è stato un errore, ma un piccolo trampolino di lancio per quella che oggi è una promettete realtà discografica. La scelta di non affiancarsi a qualsivoglia etichetta discografica è un gesto forte, un metaforico dito medio che porta in dono la volontà di crearsi un proprio futuro, una vita che non deve essere alcun modo contaminata da terze parti, un piccolo gesto mai quanto oggi pesante come un macigno.

Il viaggio introspettivo lungo la tracklist è dolore vero, l’album è suddiviso in due facciate dove le prime quattro canzoni formano l’esperienza “pre-morte”, mentre le ultime tre toccano l’inconscio, l’apertura al mondo “post-morte” così ambito e riverito dalla band. Possiamo dunque vedere questo come viaggio astrale tra terreno e ultraterreno, consocio e subconscio, verità tangibile e astratta dove le domande risultano sempre più pesanti di ogni eventuale risposta.

Mi addentro nella soffitta delle volontà cosparsa ancora di quei petali anneriti, torno entro i meandri del mia psiche e lascio da parte la futile visione del racconto inerme. Lo sguardo in lontannza mi scruta costantemente mentre silenzioso, senza paura, rifletto sugli Oscure Sphinx e sulle eventuali comparazioni oggettivi sui meriti o meno del gruppo; cosa accade quando nel bene o nel male crei musica spontanea, arte che esce dai pensieri e non dalla pianificazione? Le sonorità non seguiranno un filo logico e come in un labirinto tutto si aggroviglia e si raggomitola in favore della supplica vero l’io. I movimenti di “Epitaphs” sono come i pensieri, ballano e ondeggiano su un mare in costante balia dei venti, sicuramente una di quelle onde ti risucchierà riportandoti stile oroboro di fronte all’epigrafe dove il suono finisce, ti dilegui mesto e il buio inghiotte. Buon viaggio e buon ascolto, questa è musica per la perdizione.

Nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali

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