Recensione: Escape Of The Phoenix

Di Stefano Saroglia - 26 Febbraio 2021 - 12:00
Escape Of The Phoenix
Band: Evergrey
Etichetta: AFM Records
Genere: Heavy  Progressive 
Anno: 2021
Nazione:
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70

Escape Of The Phoenix è il dodicesimo album in studio della band progressive/heavy metal svedese Evergrey. Grazie a lavori come Hymns For The Broken nel 2014, The Storm Within (2016) e The Atlantic (2019), la band ha guadagnato l’attenzione del grande pubblico e consolidato la propria fama. Lo spirito melanconico unito alla durezza della musica hanno contribuito a costruire il marchio che contraddistingue il celebre sound degli Evergrey; in questo solco vuole collocarsi quest’ultima fatica, la cui uscita è prevista per il 26 febbraio.

Scritto e registrato durante la pandemia globale di Covid-19, Escape Of The Phoenix è stato concepito nel 2019, quando il vocalist Tom S. Englund e il batterista Jonas Ekdahl iniziarono ad abbozzare le prime idee per le canzoni poi confluite in tracklist. Solo in un secondo momento il resto del gruppo ha partecipato al processo compositivo, intervenendo sugli arrangiamenti. Curiosamente, il lockdown ha favorito le operazioni di scrittura e di registrazione dei pezzi, in quanto sono venute a mancare tutte quelle interruzioni (eventi live, appuntamenti, show-case ecc) che normalmente spezzano la continuità operativa. Il risultato è costituito da 12 canzoni che, secondo le parole di Englund e del produttore Jacob Hansen, rappresentano tutto ciò che lo zoccolo duro dei fan possono aspettarsi, magari con una vena più heavy e diretta rispetto al precedente The Atlantic. Sempre il cantante afferma che il processo creativo, nel suo caso particolare, è anche “terapeutico”, in quanto, senza la possibilità di esternare sensazioni e sentimenti del suo mondo, sarebbe sicuramente una persona infelice.

Il pezzo che apre il disco e da cui è tratto il primo singolo è “Forever Outsider”: la song parla della difficoltà a riconoscersi e a identificarsi con il comune sentire del genere umano, provando, al contempo, un senso di isolamento e la coscienza di essere, agire e pensare in modo diverso. La presa di posizione è tranciante e viene rimarcata da un tessuto musicale solido, diretto, incentrato sull’incessante lavoro di basso di Niemann e dalla batteria di Ekdahl. Gli strumenti costituiscono un monoblocco che procede unito, senza fronzoli; la voce è sicura e inventa melodie accattivanti, mentre alcune sonorità richiamano elementi di fattura più moderna. Molto ben eseguito il relativo lyric video disponibile in rete. “Where August Mourn” riprende nella forma e nella sostanza la composizione precedente: la melodia è orecchiabile e regolare e si avvicina probabilmente più a pezzi di stampo gothic metal che progressive. Il terzo componimento “Stories” si apre con il connubio voce/pianoforte: la melancolia del pezzo pervade la ritmica lenta tipica della ballad. La voce è convincente, quasi radiofonica, mentre le note scorrono senza particolari sussulti. “Dandelion Cipher” presenta un piglio sicuramente più movimentato: il basso mugghia e la batteria scandisce con vigore un 4/4 quadrato. “The Beholder” si avvale della prestigiosa collaborazione con James LaBrie. Ricorda Englund: «Scrissi a James dicendogli che sarebbe stato grandioso un duetto con lui. C’è una parte di tastiera nel pezzo e tutti i componenti della band ripetevano “Ci vorrebbe la voce di James in questo punto!”». Il pezzo gli è piaciuto molto e ha accettato: le nostre voci si sono fuse perfettamente”. L’incedere è cadenzato e i sintetizzatori dipingono un ambiente dark/elettronico dalle molteplici ispirazioni, lasciando saltuariamente ai power chord di chitarra il compito di ricordare la parentela heavy. Il testo è (ovviamente) prettamente crepuscolare. “In Absence of Sun” torna il duetto pianoforte/voce; molto belle le allitterazioni nella parte iniziale del cantato: «Sun where’s the sun?/Why is it hiding for some?/Sun where’s the sun?/The absence of light seems like abstinence/My sense of safety’s undone/Got lost in winds too young». Un lavoro di fino che non passa inosservato. Il prosieguo riprende il solito schema in cui la distorsione di chitarra sottolinea una cadenza epic/dark. “Eternal Nocturnal” viaggia, invece, su un ritmo più spedito ed è pure presente un insolito spiraglio di speranza e di conforto nelle lyrics. Il pezzo è brioso ed è sicuramente una ventata di ossigeno in mezzo a tanto depressive/failure mood.

La title-track “Escape of The Phoenix” scorre veloce, ma in modo tutto sommato anonimo: ci sono sicuramente buoni spunti, ma nel complesso non vi sono sconquassi in grado di far sobbalzare l’ascoltatore. “You from You” torna ad attestarsi saldamente sul sentimento depressivo e non si discosta dal canovaccio compositivo largamente impiegato nell’album. “Leaden Saint” è più convincente: la sua ritmica è vivace e anche la chitarra è presente in modo più incisivo, sfoggiando un’ottima qualità esecutiva. L’approccio chitarristico in tutto l’album tende a essere più nascosto, viscerale, emotivo piuttosto che tecnico: la scelta, infatti, è quella di mettersi al servizio della composizione, evitando di sfoggiare troppi colpi ad effetto (che pure sono ampiamente presenti nel bagaglio di Henrik Danhage). Per il futuro magari si potrebbe immaginare una presenza più cospicua all’interno delle canzoni, sia per quanto concerne la parte ritmica sia per l’aspetto solistico. L’album termina con la liberatoria “Run” che inizia con un bell’assolo di tastiera (un plauso al lavoro di Rikard Zander è d’obbligo): il tempo del pezzo è veloce, salvo poi rallentare nel chorus. Le lyrics sono intense, coinvolgenti e al solito ottimamente interpretate da Englund.

Escape from the Sun è chiaramente un’opera progettata, scritta e diretta da Tom Englund, il quale, per sua stessa dichiarazione, in passato ha sofferto di uno stress emotivo talmente profondo da ritrovarsi proiettato lontano dalla musica. A questo carico di tensione si è poi aggiunta la dipartita (temporanea) dalla band dei compagni di viaggio storici Johnas Ekdahl (batteria) e Henrik Danhage (chitarra), rientrati successivamente nei ranghi. I testi sono introspettivi e personali; se la melancolia è la protagonista indiscussa, c’è comunque un barlume – seppur fioco –  di speranza. Dal punto di vista prettamente musicale il disco non è etichettabile come “progressive metal”, tutti i brani sono più prossimi a un heavy metal venato da sortite in territorio dark. Il cantato è sempre pregevole e pervasivo ma nel complesso la sensazione è che la band di Göteborg viaggi sempre con il freno a mano tirato. Le composizioni si susseguono una dopo l’altra senza particolari brividi, pur essendo ben confezionate e rifinite in modo attento, quasi radiofonico. Sicuramente un album appetibile dai fan integralisti degli Evergrey, forse un po’ meno memorabile per i cacciatori di tesori del genere progressive.

 

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