Recensione: Eternal Kingdom
Il fenomeno del cosiddetto “post-core” è strano, soprattutto per come, da parte dei media, non ci si rende conto della sua importanza per l’evoluzione del metal. Chi ha vissuto infatti gli anni del doom & gloom britannico, quello della triade Paradise Lost/Anathema/My Dying Bride, non può che rendersi conto di come un movimento così irripetibile abbia trovato una vera e propria evoluzione (e contaminazione) proprio nel genere lanciato dai Neurosis. E ascoltando il nuovo, ottimo Eternal Kingdom degli svedesi Cult Of Luna non si può che averne conferma definitiva.
La band di Umeå (cittadina fertile, visto che ha dato i natali anche a Meshuggah, Naglfar e Setherial) dichiara di voler tornare a un suono maggiormente “chitarristico” rispetto a quello proposto con il grandioso predecessore Somewhere Along The Highway, ed effettivamente è quello che fa: stringe il focus sui riff, sugli arpeggi, con il solito latrato disperato di Klas Rydberg a fornire l’impatto dovuto; ma non viene a mancare l’atmosfera, anzi, viene forse accentuata proprio dai contrasti, come l’arpeggio finale di Owlwood, bella e tragica opener, dimostra.
Scriviamo subito che l’album è un concept con un sapore un po’ di “altri tempi”: il gruppo avrebbe ritrovato nell’edificio della propria sala prove, in passato manicomio criminale, il diario manoscritto di uno dei pazienti/carcerati, il quale aveva creato un proprio mondo (l’ “eternal kingdom” appunto) per giustificare l’uxoricidio commesso; un mondo ovviamente da incubo, popolato dalle peggiori entità che la mente umana possa concepire. Condizionali a parte, il fascino della storia (e magari anche un po’ la sua ingenuità) è innegabile, specie se la colonna sonora è tanto corposa e valida.
I vari capitoli si snodano principalmente con quella cadenza lacerante che ha fatto dei Cult Of Luna un gruppo, ehm, culto: il grigiore dei precedenti album lascia qui spazio al buio più assoluto della discesa negli inferi mentali, a sprazzi di luce e melodia, per poi abbattere nuovamente la scure chitarristica sulla testa dell’ascoltatore. La psichedelia ben più che accennata della title-track, di Ghost Trail (spettrale, una della canzoni migliori dell’intero disco), la grezzaggine quasi rock di The Great Migration, la quiete apparente di Curse vi si appiccicheranno addosso senza possibilità di scampo, e sarete perduti nel mondo spettrale governato dal malvagio dio-gufo Ugin.
Capitoli fondamentali per lo sviluppo di un intero genere, si diceva in apertura: gli aficionados della band faranno inevitabili confronti con la discografia passata, sia in positivo che in negativo, ma Eternal Kingdom merita semplicemente di essere messo in bacheca come l’ennesimo successo di questo prolifico 2008, e soprattutto come uno dei gioielli dark e doomy (e sporcatelo di hardcore, psichedelia e quello che volete) dell’inizio del terzo millennio.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
01. Owlwood 07:40
02. Eternal Kingdom [mp3] 06:41
03. Ghost Trail 11:50
04. The Lure (Interlude) 02:34
05. Mire Deep 05:11
06. The Great Migration 06:32
07. Österbotten 02:20
08. Curse 06:31
09. Ugín 02:44
10. Following Betulas 08:56