Recensione: Europa
Ricordo molto bene quando uscì “Where Ravens Fly“, primo album-EP degli allora sconosciuti “Himinbjorg“, con quella copertina che sottolineava abbastanza chiaramente la loro dedizione al viking metal. Per questo, a cadenza più o meno regolare acquistai tutti i loro album fino ad arrivare, un giorno, a osservarli tutti e cinque e a chiedermi “che ho fatto?”. Devo dire di essere sempre più sconcertato da questa band francese che continua con insistenza a sfornare dischi per una peculiare fetta di ascoltatori, divisi probabilmente tra il dark, il neogothic, probabilmente il viking e chissà cos’altro. Una cosa è certa – per quanto abbiano sempre tentato con un certo imbarazzo, sia loro che la critica, di promuoversi band viking, diciamo che da Third in poi la dicitura è quantomai impropria – ora sono una specie di mistura indefinibile di generi collegati insieme da temi pagani-naturalisti di impatto variabile. Questo Europa in particolare raccoglie in un certo senso l’eredità degli album trascorsi cercando di dare un colpo di reni con un lavoro che si possa definire a tutti gli effetti un full-length, ma che ancora una volta fallisce nell’intento – e non a causa del finalmente cospicuo numero di tracce: stavolta il vero problema è il contenuto di ognuna di esse.
Fin dall’inizio non si capisce bene dove voglia andare a parare, con una delle intro più cacofoniche e brevi credo della storia del metal, che prosegue con una delle canzoni obiettivamente migliori della loro produzione, “Entering Odin’s Huge Palace“. Si direbbe quasi un rigurgito bathoriano quello che guida questa prima traccia, un qualcosa che assomiglia a quel periodo epico estremo dei cori fastosi di Lake of Fire o di Hammerheart, prima di rendersi conto che alle voci è rimasto sempre il caro vecchio Zahaah con il suo inconfondibile gracchiare che funziona perfettamente nelle parti in scream ma che confonde decisamente nelle parti in clean – purtroppo presenti in egual misura.
Le parti strumentali rimangono sempre quelle lente, un po’ decadenti e oscure, dei loro lavori passati, mentre si nota una certa voglia di fare in quelle parti decisamente più tirate, quasi black metal, che adornano con un certo gusto “It Was in Europe” e “The Inner Mirror“, probabilmente le migliori dell’intero disco.
Purtroppo, oltre alla vaghezza generale che percorre quasi tutte le canzoni, i problemi ci sono e si fanno sentire: un po’ come negli ultimi Einherjer, il cantato è di una disarmante piattezza, e si rincorre in egual misura nelle poche canzoni presenti, intervallate da brevi parti strumentali molto simili tra loro anche nel titolo, o meglio nel non-titolo: su 14 tracce ben 4 non hanno titolo nemmeno sulla tracklist nel libretto. Forse nemmeno loro sono stati in grado di titolare passaggi così scarni, che fanno scorrere via molto velocemente l’album fino ad arrivare a metà CD senza quasi accorgersene. Alcune trovate sono obiettivamente interessanti, ma sono troppo perse in un mare di insensatezze lungo 51 minuti – probabilmente la batteria incolore gioca un ruolo decisivo nella confusione generale, ben visibile in “Last Day in Alesia“, che pur vantando un cantato e un equilibrio compositivo di prim’ordine, viene spesso inutilmente brutalizzata dalle percussioni e da alcune ripetizioni decisamente ossessionanti.
Un vero peccato, perché è dal primo album che sento un potenziale folk-viking molto forte che viene sprecato – o meglio “economizzato” – in più di una occasione. Il disco tende decisamente al dark in più di un punto, una cosa che hanno provato decisamente in Third e che li ha qualificati un po’ meglio rispetto ai loro lavori passati, ma il suono è ancora un po’ troppo scontato. Anche l’artwork segue quel gusto sinitetico che li ha sempre caratterizzati, esattamente come il libretto illegibile che è sempre stata loro prerogativa.
Tutto sommato è difficile consigliare a qualcuno di spendere quattordici euro per acquistare un disco del genere: non è propriamente malvagio, alcune canzoni non sono male, ma è ancora un prodotto un po’ fiacco – anche se dopo 7 uscite e 5 album propriamente detti, già si può parlare di “stile alla Himinbjorg” – quello stesso stile che mi convincerà a comprare ancora un loro CD nella speranza che si tramutino in un progetto esemplare oppure nella discografia più blanda mai posseduta da essere umano – per ora, secondo me, nemmeno uno dei loro lavori supera la sufficienza.
Tracklist:
01. Intro
02. Entering Odin’s Huge Palace
03. It Was In Europe
04.
05. The Inner Mirror
06. Yon
07. The Alienated
08. The Law Of The Worship
09. Like A Shadow
10.
11. Daily Desillusions
12.
13. Les Strates
14. Last Day In Alesia