Recensione: Europe
Il primo album degli svedesi Europe è un debutto per certi aspetti tipico dato che mostra sia il potenziale che i limiti di un gruppo appena uscito dall’anonimato e questo risulterà evidente anche all’orecchio meno allenato. Le nove tracce presenti sul Cd, peraltro non così facilmente reperibile, sono evidentemente caratterizzate da una certa discrepanza qualitativa, la quale rende la prima parte dell’album gradevole ed incisiva, mentre la seconda risulta decisamente meno interessante.
Per chi non lo sapesse, le coordinate entro cui si muoveva il gruppo svedese scioltosi nel 1993 erano quelle dell’hard rock melodico e contemporaneamente maestoso, il cosiddetto class metal cui molti gruppi oggi scomparsi, o molto ridimensionatisi in quanto a popolarità, si dedicavano nel corso degli anni ’80. Questa premessa è utile per una migliore comprensione del disco di cui stiamo parlando poiché “Europe” è un album di rock melodico caratterizzato da una buona dose di energia e di furore chitarristico, il che rende il lavoro in questione decisamente allettante per chi ama un certo modo di fare rock e di concepire le canzoni, per chi sente la mancanza di un modo di suonare oggi non più così comune.
L’album è caratterizzato da una produzione onesta, ma non particolarmente brillante, che rende il disco un tantino sottotono, ma quel che salta subito all’occhio sono i due punti di forza del suono targato Europe: la grande voce del biondo Joey Tempest e la chitarra incontenibile, graffiante e melodica del bravo John Norum. Stiamo parlando del vero e proprio motore della musica degli Europe, giacché Tempest è non solo un cantante enormemente dotato e carismatico, ma anche il principale compositore delle musiche ed autore dei testi, mentre Norum è molto più di un semplice coadiuvatore ed arrangiatore. Ascoltare due dei primi brani, “In the future to come” e “Seven doors hotel” è una vera goduria e se si pensa che Tempest e Norum avevano allora sì e no vent’anni, la cosa ha dell’incredibile. Questi due brani sono senza dubbio i migliori del disco poiché non risultano noiosi o prevedibili, sono dotati di un tiro non indifferente e sono caratterizzati da una linea vocale azzeccatissima, che si sposa benissimo con l’irruenza travolgente della sezione ritmica. Il grande hard rock di queste due canzoni fa pensare di trovarsi di fronte ad un disco memorabile, ma purtroppo gli Europe non riescono a mantenere elevato il tenore delle composizioni e la maggior parte dei brani successivi si attesta su di un livello qualitativo discreto, ma è priva di tratti distintivi di rilievo, eccezion fatta per “The king will return” che sfiora quasi certe atmosfere anni ’70, avvicinandosi in qualche modo allo spirito di “Catch the rainbow” dei Rainbow. Questo brano è caratterizzato da un testo dal sapore epico, intriso di tristezza e di speranza e da una linea vocale inusuale ma riuscita e devo ammettere che non mi sarei mai aspettato questo piccolo gioiello nel primo album del gruppo che di lì a poco avrebbe conquistato mezzo mondo con “The final countdown”. Per quanto riguarda le altre tracce, nessuna spicca in maniera definitiva, anche se qualche buona cosa (vedi assoli di chitarra) è disseminata qua e là, ma questo non basta a salvare la seconda metà dell’album da un certo appiattimento.
Nonostante gli Europe siano stati dimenticati da molti nel mondo del rock (sia che si parli di fans, che di musicisti) ritengo che tutti i loro album siano validi ed interessanti, seppur demodé rispetto alle tante e tumultuose tendenze che affollano il rock oggigiorno per cui se, come me, non vi formalizzate troppo davanti ad un gusto diverso da quello dominante oppure se conoscete altri dischi degli Europe, cercate questo album e godrete sicuramente di qualche bel momento di grande musica.
