Recensione: Every Shape And Size
Si professano grandissimi fan di Dream Theater e Pain Of Salvation. E non possiamo negarlo: si sente.
I romagnoli Silver Lake arrivano così al traguardo del loro secondo album, bis del debutto omonimo uscito nel 2011: ostentando un’influenza ingombrante come un condominio e foriera, appena adocchiata, di parecchi sospetti ed interrogativi.
Muse ispiratrici i Dream Theater ed i Pain Of Salvation: definirle impegnative è persino banale. Il rischio di crollare nell’anonimato dei tanti gruppi clone, è, poi, il passo direttamente successivo ad un ascolto che non riesca a delineare qualcosa in più di tanti bei nomi messi in copertina per accalappiare qualche appassionato.
Un campo minato bello e buono, non c’è che dire.
Fortunatamente i cinque musicisti ravennati sanno assumersi qualche rischio. E pur non denotando una personalità particolarmente spiccata o risvolti per i quali poter essere riconosciuti di primo acchito, sanno mostrare notevole coerenza nel perseguire l’obiettivo espresso sin dalla formazione, costruendo, pezzo per pezzo, una carriera a base di un solido e piacevole progressive dalle manifeste sfumature heavy.
Incentrato sulle sofferenze dell’animo umano, sul dolore, le paure e l’angoscia di un’esistenza incerta e piena di dubbi come quella regalataci dal nuovo millennio, il secondo cd dall’enigmatico titolo di “Every Shape And Size” si profila, infatti, come un buon passo in avanti rispetto all’esordio, disco gradevole ma sin troppo manierista ed ancorato ad un modo di far musica carico di stereotipi e luoghi comuni.
Intendiamoci, il canovaccio stilistico non muta più di tanto nemmeno stavolta, mantenendosi legato ad una classicità heavy prog tanto familiare quanto ordinaria. Pur tuttavia, i suoni, le ambientazioni, le ricercate digressioni strumentali dai toni mai troppo solari e gaudiosi, lasciano intendere una maturazione che si sviluppa e cresce.
Proprio come il genere abbracciato, “progredisce” e mette nel mirino un livello qualitativo che, anche se inquadrato senza possibilità d’errore entro determinati confini – possa far leva sulle semplici rassomiglianze di routine, per affermare qualcosa di maggiormente personale ed incisivo.
Il mezzo è una preparazione formale inappuntabile. Il percorso è quello di un songwriting che tenta più volte di mescolare le carte, allineando all’eleganza dei primi Dream Theater, un dualismo “bifronte” che in alcuni frammenti, si collega alle digressioni quasi cervellotiche dei Pain Of Salvation. In altri, predilige la linearità schietta dei nostrani Labyrinth.
Ed in più, viene racchiuso ed avviluppato in un’atmosfera malinconica che sa tanto di Evergrey.
Il risultato che ne deriva è quello di una serie di brani piacevoli e dalla dichiarata anima “progressiva”, all’interno dei quali riconoscere doti di buon gusto melodico ed orecchiabilità. Elementi che magari non segneranno i contorni di un capolavoro in senso assoluto, ma che non mancano di farsi apprezzare da chi, per il genere, ha buona predisposizione e nutre interesse.
Ispirati particolarmente in episodi quali “Hold Me Close”, “The Illusion” e “58” (nostalgico omaggio al povero e compianto Marco Simoncelli), i Silver Lake si accomodano, insomma, nei ranghi “nobili” del plotone di prog-band emergenti. Ancora in attesa di una vera consacrazione, ma già in evidente possesso di qualità utili ad ambire a posizioni di maggior rilievo.
L’album è piacevole ed i quarantotto minuti che lo compongono, scorrono senza particolari intoppi sino al termine: nulla di prodigioso o destinato a tracciare memorie indelebili, ma comunque, realizzato in modo da suscitare apprezzamenti e giudizi del tutto positivi.
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