Recensione: Everything remains (as it never was)
Si prenda un calderone grande abbastanza e lo si ponga al centro dell’area dei festeggiamenti.
Si mescoli con perizia 1/3 di death svedese, 1/3 di inebriante e spumeggiante folk in cui archi, flauti e strumenti tipici della tradizione non siano lesinati, e il restante in birra, vodka e spezie avendo l’accortezza di mescolare con cura portando a deflagrante ebollizione: dopo pochi istanti andrete ad ottenere “Everything remains (as it never was)”, ultima fatica degli Eluveitie.
Questo negli intenti e, sopratutto, nelle aspettative. Al primo ascolto, invece, il disco degli svizzeri sembra – e mi si passi il paragone – come una grappa alla frutta in cui il gusto dell’alcool è decisamente preponderante rispetto al gusto della frutta, limitando di molto tutto l’insieme. Così come in una bevanda che brucia la gola, così nel disco la parte death sembra l’assoluta dominante rispetto ad una parte folk relegata a un ruolo quasi secondario che, oggettivamente, ben poco le si addice. Ma attenzione, non parlo di una totale mancanza di quelle ambientazioni così care agli amanti del genere, quanto ad una messa in secondo piano soprattutto nelle parti iniziali del platter.
Ad onor del vero sono piuttosto contento di venir smentito nel proseguo dell’ascolto e nell’addentrarmi più specifico in questo lavoro. La parte “popolare”, tanto attesa e ricercata, fa cogliere la propria bellezza a piccola dosi, non centellinata ma dosata ad arte in modo da sentirne la necessità durante l’ascolto. In effetti la struttura stessa del disco porta l’ascoltatore a ricercare i dettagli in modo inconsapevole rendendo l’album più complesso di quanto non voglia far trasparire dalle prime battute.
Se è vero che la fretta è una pessima consigliera, vi esorto ad attenti e approfonditi ascolti in modo da poter apprezzare maggiormente i dettagli che, sicuramente, emergeranno dall’insieme. Non parliamo certamente di complessità musicali insormontabili, quanto di strutture eleganti nell’essere popolari da assimilare e metabolizzare con calma.
Se il lavoro, come detto in precedenza, gratta metaforicamente la gola, è anche capace di lasciare un delizioso retrogusto di frutta fresca, impossibile da cogliere all’istante.
Aspro e graffiante, dolce e raffinato il disco saprà incedere come le anse un grande fiume: agitato, scontroso e indomabile a monte, docile ed affabile, contemplativo e rassicurante alla fine del suo naturale percorso.
Mutevole come di sua natura, sarà lo stesso avvicendarsi aggressivo e violento a trasformarsi in delicata poesia in cui flauto, cornamusa e le uilleann pipes tracciano ideali, soavi melodie.
Questo, in buona sostanza, è il “modus operandi” di ogni disco che si rispetti: colpisci subito forte in modo da travolgere e spiazzare, e poi amministra facendo sussultare alla bisogna con dei colpi ben assestati.
Per questo ci vuole mestiere e determinate doti artistiche, cose che, senza dubbio, fanno parte del bagaglio artistico degli Eluveitie. Questo è il loro, personale, “new wave of folk metal”: soddisferà di sicuro gli amanti delle nuove sonorità e delle contaminazioni Gotheburghesi, ma sono certo si farà apprezzare anche da chi non è avvezzo a troppe sperimentazioni.
Apre “Otherworld” – che risulterà a mio parere molto utile anche come opener alle esibizioni live – atmosferica intro interpretata da una voce femminile narrante accompagnata da un leggero sottofondo di cornamuse e percussioni lontane. Echi e parti orchestrali, solcati da soffi di vento impalpabili, rendono l’atmosfera magica e suggestiva.
Lo stacco tra intro e titletrack “Everything Remains (as It never was)” è netto, preciso, violento, mediato in parte solo dalla voce femminile che precede il refrain. Per il resto le chitarre di Ivo Henzi e Simeon Koch ci regalano una valga di riff mentre lo scatenato growl di Christian “Chrigel” Glanzmann sottolinea la parte più oscura della canzone. Ma è con “Isara”, mirabile pezzo strumentale collocato a metà dell’album, che la parte più folk del gruppo si anima e accende di passione il cuore di chi ascolta. Violini e liuti conquistano la ribalta; ghironde e gaite li elevano dal ruolo di comprimario accompagnamento e si esaltano in uno sciabordio di suoni caldi, evocativi trasudanti di tanto fiero gaelico orgoglio.
Gli equilibri vocali sono stati ristabiliti dopo l’uscita del controverso Evocation I: The Arcane Dominion riportando sugli scudi la voce Chrigel, indiscusso protagonista di questo album.
Le sfuriate death non vengono certo accantonate ed è la prima parte di “Kingdom Come Undone” a testimoniarlo in maniera più che soddisfacente. Ma è comunque l’ago della bilancia più rivolta verso il folk a fare la differenza.
È assolutamente apprezzabile il lavoro svolto dalla band, supportata da una produzione eccellente, capace di proporre un lavoro sfaccettato e vario che si lascia scoprire come le donne d’un tempo: con calma, pazienza e dedizione, sapendo corteggiare e giocare con il desiderio, senza concedere tutto e subito.
Il lavoro continua a correre sui binari del perfetto equilibrio tra le varie anime musicali che ne costituiscono l’essenza: resta da sottolineare l’ottima prestazione del norvegese Thebon, frontman dei Keep of Kalessin, perfettamente a suo agio nell’interpretazione della canzone “(Do)minion”.
Tirando le somme, “Everything Remains (as It never was)” è un discreto album con dei buonissimi spunti folk. Non raggiunge le vette del genere ma di certo è un disco molto piacevole e di sicuro interesse per chi nella musica cerca ancora i segni di una tradizione che, a dispetto delle ere e delle mutevolezze del genere umano, continua a vivere e ispirare migliaia di persone in giro per il pianeta.
Sloncia, Eluveitie!
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Tracklist:
1.Otherworld
2.Everything Remains As It Never Was
3.Thousandfold
4.Nil
5.The Essence of Ashes
6.Isara
7.Kingdom Come Undone
8.Quoth the Raven
9.(Do)minion
10.Setlon
11.Sempiternal Embers
12.Lugdunon
13.The Liminal Passage