Recensione: Evil Remains

Di Vittorio Cafiero - 26 Dicembre 2024 - 9:59
Evil Remains
Band: Castle
Etichetta: Hammerheart Records
Genere: Doom 
Anno: 2024
Nazione:
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75

Prendiamo in considerazione e analizziamo con piacere “Evil Remains”, il sesto lavoro sulla lunga distanza dei Castle, duo formato dalla californiana Elizabeth Blackwell (voce e basso) e dal chitarrista canadese Mat Davis, coadiuvati alla batteria da Mike Cotton in questo caso (nei Castle il ruolo di batterista è sempre coperto da turnista). Sottolineiamo “con piacere”, in quanto è sempre fonte di soddisfazione per chi recensisce dischi della musica che ama avere a che fare con gruppi che immediatamente trasmettono passione e genuinità nel creare e confezionare la propria proposta. Proposta che, per quanto riguarda i Castle, si sviluppa in un heavy-doom metal a sfumate tinte stoner e il cui risultato in questo caso prende forma in otto tracce otto per 37 minuti di durata totale: essenzialità e zero orpelli, quindi, per una band che fino a poco tempo fa era misconosciuta dalle nostre parti e il cui monicker ha iniziato a girare abbastanza recentemente, grazie anche al passaggio alla Hammerheart Records che ha garantito maggiore promozione e ad un tour europeo autunnale lungo ed esteso che ha fatto crescere la reputazione della band.
Già la splendida copertina permette di inquadrare stile e tematiche proposte dai Castle: siamo in territori ossianici concretizzati in un’atmosfera retrò e tutto sommato semplice. La resa sonora ha un che di “lo fi”, ma senza esagerare e tutto l’album è pregno di un retrogusto crust, musicalmente anarchico, in un certo senso. Per fare un paragone all’interno dello stesso sottogenere, siamo distanti dal mood quasi vellutato di band come Avatarium o vintage-chic come Lucifer.
In “Evil Remains” i pezzi nascono attorno ai riff della chitarra, sempre intensi ed enfatizzati, realizzati attraverso pennate pesanti e la voce della Blackwell é sentita, quasi urlata, istintiva. Doom metal nell’indole, certamente meno nell’andatura: i ritmi sono sempre belli sostenuti, a volte anche frenetici, rendendo tutte le composizioni ben poco contemplative, al contrario, c’è molto focus, come se l’obiettivo principale dei Castle fosse quello di andare dritti al punto, di porre contorni molto definiti alla forma-canzone.
Si chiudono gli occhi e si viene catapultati in ambientazioni horror da anni ’50 (complice la semplice ma affascinante immagine di copertina e anche i titoli dei brani sono determinanti in questo senso), è difficile rimanere impassibili a pezzi dotati di tiro e decisamente trascinanti: “Queen Of Death” parte subito bella nervosa e arcigna, mentre in “Nosferatu Nights” Elizabeth ricorda Lynda Tam Simpson dei leggendari Sacrilege (UK). Giusto soffermarsi subito sull’originalità della cantante californiana, così lontana dai cliché con il suo timbro così sofferto e sanguigno, quasi proletario: non cerca di piacere o compiacere, ma esprime profondità e sensazioni, o almeno questo sembra il suo unico obiettivo. Siamo lontani dallo stereotipo della dark lady ammaliante, la vocalist è tutta sudore e sostanza.
Dopo la più lunga ed ammaliante “Deja Vodoo”, la title track ha un flavour decisamente settantiano, mentre “Black Spell” ha un tiro rimarchevole, adattissimo al contesto live, quasi motorheadiana nel suo incedere. L’album è per l’appunto di breve durata, del resto non servirebbe minutaggio ulteriore per sviluppare la proposta dei Castle, che è semplice e diretta e le atmosfere lisergiche tipiche dello stoner sono solo un piccolo ingrediente che ha la funzione di arricchire il piatto principale. Ci si avvia in fretta verso la fine della tracklist, con la più scorbutica “She” che fa delle variazioni ritmiche la sua peculiarità e l’inquietante “Cold Grave”, il cui titolo già dice tutto.
Spirito minimalista e indipendente, si nota un certo distacco da molte delle dinamiche consumistiche che pervadono il music business. I Castle suonano per piacere personale, tirano avanti con tenacia per loro stessi prima di tutto e ben venga se la loro proposta può trovare gli interessi del pubblico. Tutto ciò, percepito anche nella loro recente calata dalle nostre parti, dove siamo venuti a contatto con musicisti veri, ancora affamati e dall’indole infuocata.

Molto difficile non provare simpatia e non venire catturati da “Evil Remains”, probabilmente il lavoro definitivo della premiata coppia Blackwell-Davis; un album da segnalare per l’intrinseca qualità, l’efficace immediatezza e per tutto lo spirito e la passione che circondano il mondo Castle.

Vittorio Cafiero

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