Recensione: Excalibur

Di Stefano Usardi - 18 Novembre 2018 - 12:00
Excalibur
Band: Iron Void
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2018
Nazione:
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76

Excalibur” è il terzo album della compagine britannica degli Iron Void, formatasi nel 1998 a Wakefield, nello Yorkshire occidentale, scioltasi all’inizio del nuovo millennio e riformatasi per fare le cose sul serio solo nel 2008. Come facilmente intuibile, “Excalibur” è un concept album sulla figura di re Artù, che dal quinto secolo d.C. in poi  affascina legioni di appassionati e che, nel corso dei secoli, è stata omaggiata in numerosi modi e attraverso i media più disparati. Più nello specifico, “Excalibur” richiama alla mente in più di un’occasione (si veda ad esempio l’apertura affidata alla celebre formula della magia del fare, il titolo stesso dell’opener in cui si rimanda al collegamento tra l’entità del Drago e la spada, o quello della settima canzone, che cita il commiato di Merlino al sognante Artù prima della battaglia finale) l’omonimo e splendido lungometraggio di Boorman del 1981 che, per il suo andamento scandito, sinuoso e profondamente onirico, ben si presta alla musica del trio. I nostri, infatti, propongono un poderoso e inesorabile doom metal dalle tinte epiche, non privo di fraseggi più dilatati e sognanti, che nel suo fosco dipanarsi tributa i giusti onori ai nomi grandi della scena, soprattutto quella passata. Echi di Black Sabbath, Pentagram e Solstice spuntano di tanto in tanto nel notevole seppur classicissimo amalgama dei britannici, che però si permette anche di imbastardire la propria offerta con ispessimenti più tipicamente heavy o fraseggi più vicini a blues e psichedelia. Insomma, niente di nuovo sotto il sole, come diranno alcuni, e in effetti la proposta dei nostri non è che brilli per originalità, ma al netto di una prevedibilità di fondo piuttosto pronunciata e una certa staticità vocale va anche detto che gli Iron Void sono riusciti a confezionare comunque un ottimo lavoro, dalla caratura notevole, assolutamente godibile e a tratti esaltante.

L’album si apre, come già detto, con la formula della cosiddetta magia del fare: l’arpeggio che segue mette subito le cose in chiaro su quello che sarà il trend della canzone d’apertura: “Dragon’s Breath” incede con la lenta e altezzosa inesorabilità di una marcia solenne, epica e maestosa, dispensando grandiosità a manciate; l’assolo centrale, dall’intenso profumo di Sabbath, s’insinua per un attimo nella grandeur del brano, che poi torna alla sua solita compatta densità in tempo per il finale. “The Coming of a King” aumenta, seppur di poco, il tasso di aggressività, rombando con la grinta di un mid tempo heavy tutto muscoli, inframmezzato di tanto in tanto da sporadici spiragli di trionfalismo più solare. Il minaccioso rallentamento che si appropria della parte centrale, invece, addensa nubi temporalesche sul tono della composizione, che si conclude col ritorno all’andamento da heavy classico che l’aveva aperta. Trionfalismo spinto e graffiante caratterizza “Lancelot of the Lake”, che dopo un inizio granitico si sviluppa invece come una canzone briosa, seppur screziata da un certo eroismo latente. Anche qui, l’intermezzo centrale più compassato e a tratti sognante spezza l’andamento della traccia, inserendo poi una certa dose di minaccia che, in questo caso, traghetta l’ascoltatore fino alla fine della canzone e alla successiva ed assai più monolitica “Forbidden Love”. Fin dal minaccioso riff d’apertura si capisce che le cose sono cambiate: le inflessioni doom si riappropriano del tessuto sonoro, velando la canzone con i loro funerei drappi senza, per questo, perdere troppo in solennità. L’accelerazione centrale che prelude l’assolo dissipa per un attimo le nubi accumulatesi fin qui, trasformando la canzone in una cavalcata hard n’ heavy di tutto rispetto, ma tutto si scioglie come neve al sole col ritorno, nell’ultima parte, ai toni plumbei e minacciosi che l’avevano aperta e che proseguono, appesantendosi ancor di più, in “Enemy Within”. Qui, infatti, i ritmi si fanno ancor più oppressivi, caratterizzati da riff dilatati e torvi e linee vocali grifagne. L’ispessimento centrale diluisce un po’ il senso di minaccia latente per destreggiarsi su un terreno più classicamente hard rock, prima di tornare alle scudisciate doom che chiudono la canzone in modo nuovamente intimidatorio. L’aura di minaccia permane in “The Grail Quest”, altro brano scandito e solenne in cui epica e angoscia si mescolano fino a creare un unicum denso e greve; l’accelerazione arriva più tardi del solito, e stavolta si limita a uno svolazzo strumentale che cede il passo fin troppo presto al ritorno della pesantezza incombente che ha caratterizzato il resto della composizione. “A Dream to Some, a Nightmare to Others”, dopo un riff introduttivo che profuma dei Sabbath più cupi e spessi, si sviluppa come una marcia possente venata del trionfalismo solenne già incontrato in più di un’occasione che ne stempera la pesantezza, raggiungendo infine il suo climax poco dopo il breve solo. Si arriva così a “The Death of Arthur” presentata da un arpeggio malinconico sotto cui si cela, però, il solito velo di minaccia. Il tono elegiaco della traccia – che, con i suoi sette minuti e mezzo, risulta la più lunga dell’album – ben si amalgama alla resa più fredda e distaccata della voce, creando un contrasto affascinante che viene spezzato dalle improvvise frustate strumentali. Col procedere del minutaggio il tasso di pathos cresce ma senza mai superare i livelli di guardia, bilanciando bene le diverse velature che, stratificandosi, danno vita a quest’altro gioiellino: molto bello l’assolo, semplice ma carico di feeling, che poi fluttua via cedendo terreno al tono malinconico con cui si era aperta la canzone. Chiude l’album “Avalon”, componimento discreto ma che, ad essere sincero, non mi ha del tutto convinto: pur seguendo abbastanza fedelmente il classico canovaccio della ballata acustica dai toni mesti e punteggiata da una voce delicata, i nostri baldi inglesi eccedono un po’ troppo col pathos, che in questo caso, a mio avviso, storpia un po’ il risultato finale trasformando una chiusura che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto mantenersi su un registro più ossianico in una nenia fin troppo lamentosa.

Excalibur” è, in ultima analisi, un album che guarda più al passato che al futuro, e forse è proprio il suo essere pacatamente attempato che lo rende così affascinante; nonostante i ripetuti rimandi ai nomi storici e la sua aura volutamente retrò, infatti, non si può negare che il terzetto britannico abbia confezionato un album di indiscutibile valore, solido ed evocativo, che vede la sua obsolescenza programmatica come un pregio e non come un difetto. E, in fin dei conti, come si fa a dargli torto?

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