Recensione: Exile
Dalle ceneri dei Bal Sagoth (sì, è vero: la band di Byron non si è ufficialmente sciolta, ma se escludiamo il demo del 2013 è dalla bellezza di tredici anni che i re del barbaric metal non si fanno sentire, complice anche l’esilio del cantante Byron per dedicarsi ad altro) sorgono i Kull, compagine formata per quattro quinti da membri dei già citati Bal Sagoth e dal chitarrista dei Dyscaphia, qui passato dietro il microfono. Vista questa prima, importante premessa – senza soffermarsi sul nome del gruppo, Kull, altra reminiscenza howardiana doc, visto che si riferisce al corrucciato Atlantideo che avrebbe costituito il prototipo di Conan – era logico immaginare una proposta che, almeno musicalmente, non si distaccasse troppo dalle linee guida che i fan dei fratelli Maudling e soci hanno imparato ad amare, e infatti durante l’ascolto di “Exile” lo spettro dei Bal Sagoth si fa sentire praticamente sempre, aleggiando pesantemente su ogni traccia. “Beh, grazie” direte voi, “è lo stesso gruppo con un altro cantante!”, e ciò è assolutamente vero, vi rispondo io, soprattutto se aggiungiamo che il buon Tarkan Alp fa di tutto per ricordare Byron, seppur senza possederne la vena di isterico fomento e l’enfasi declamatoria. Sulla base di queste considerazioni sarebbe assolutamente ragionevole immaginare “Exile” come l’ufficioso, settimo album degli stessi Bal Sagoth (cosa peraltro confermata anche dai fratelli Maudling), visto che i tratti salienti della proposta ci sono tutti: ritmiche frastagliate e atmosfere in continua evoluzione, cambi di tempo a pioggia, chitarre nervose, la maestosità sinistra e incalzante delle tastiere, il familiare senso di urgenza che traspare dai passaggi più frenetici, le digressioni trasognate ai limiti del contemplativo e i passaggi dal retrogusto epico e cafone che sembrano uscire a forza da un’immagine di Frank Frazetta o Ken Kelly.
L’album si apre con “Imperial Dawn”: pur non essendo un grande estimatore delle intro ho sempre amato quelle dei Bal Sagoth – capaci come pochissimi altri di immergere l’ascoltatore nell’atmosfera dell’album – e mi fa piacere notare che anche i Kull si mantengano fedeli al loro stesso trend. L’ariosa grandeur dell’intro sfuma nella furente “Set Nakt Heh”, aperta da sinistri sussurri e riff nervosi che strisciano sotto l’imperiosità delle tastiere. In breve la traccia si ammanta di un’aura incalzante sporadicamente smorzata da fraseggi leggermente più narrativi, guadagnando in possanza col procedere del minutaggio mentre la voce alterna senza soluzione di continuità scream, growl e sussurri insinuanti. “Vow of the Exiled” viene introdotta da una melodia molto cinematografica che, in breve, esplode nella classica furia solo apparentemente caotica degli inglesi. La vena trionfale riappare per un attimo, prima di essere di nuovo fagocitata nel maelström sonoro, mentre l’improvviso rallentamento apre, in breve, a una nuova sfuriata: la canzone non sta ferma un secondo, alternando rabbia improvvisa, fraseggi destabilizzanti e schegge impazzite di grandiosità mentre le tastiere giocherellano nelle retrovie, sempre pronte a far capolino. “A Summonig to War (Dea Bellorum Invicta)” punta maggiormente sul fomento battagliero grazie a un andamento meno instabile e melodie più anthemiche, maestose, pregne di un senso di meraviglia enfatizzato dalle onnipresenti tastiere. L’ingresso del pianoforte giusto in tempo per il finale ingentilisce la canzone, ma ogni dolcezza viene spazzata via col sopraggiungere dei riff minacciosi di “Hordes Ride”, sorretti dai ruggiti di Tarkan. I ritmi si fanno più lenti, grifagni, consentendo alla traccia di avanzare diffondendo nell’aria un misto di sfacciataggine e vanagloria. L’improvvisa sfuriata centrale innalza il livello di cafonaggine del pezzo, mentre i brevi rallentamenti vengono sfruttati per prendere la rincorsa in vista di una nuova scarica di blast beat. “An Ensign Consigned” torna a giocarsi, dopo un incipit vagamente sinistro e dal retrogusto declamatorio, la carta dell’urgenza: riff nervosi sorreggono una voce raschiante, mentre ai ritmici colpi di un cannone si sostituisce la solita sezione ritmica impazzita. Le tastiere si riprendono spazio pian piano, intessendo melodie – ora incalzanti e ora trionfali – che dalla retroguardia esplodono nella carica anthemica del coro che apre la seconda metà. Da qui in poi il vortice sonoro della canzone si ammanta di trionfalismo, che ci conduce fino al finale e all’arrembante “Pax Imperialis”, in cui si torna a sentire profumo del caro vecchio “Battle Magic”. Melodie trionfali e ritmi agguerriti la fanno da padrone, salvo cedere il passo alla classica digressione in cui coesistono impennate di rabbia trattenuta e melodie distese, dal taglio quasi sognante. “By Lucifer’s Crown (Lapis Exillis)” parte ritmata, con riff tesi che sostengono una voce minacciosa. Le tastiere entrano in gioco poco dopo, per innestare su questa base granitica le loro melodie dall’intenso sapore cinematografico. La canzone mantiene ritmi frizzanti, alternando la frenesia del black alle improvvise aperture tastieristiche, mentre Tarkan si veste del suo tono più eclettico saltellando da un growl ruvido a una voce pulita più roboante. Con “Of Stone and Tears” qualcosa cambia: i toni si abbassano, permeandosi di una vena di pericolo imminente. Le chitarre dispensano stridii in ogni dove, spezzando i riff sinuosi e serpeggianti di un brano molto più death-oriented di quelli sentiti finora; solo ogni tanto qualche arpeggio meno maligno allenta la tensione costante del brano, che culmina nell’incombente coro finale. “Aeolian Supremacy” sembra continuare su questa strada di crudeltà fine a sé stessa, limitandosi ad inserire una voce femminile in controcampo per smorzarne l’impatto, ma ogni timore si scioglie con l’entrata in scena delle tastiere che aprono a melodie, anche qui, dal possente afflato cinematografico. Lo stacco improvviso ci consegna una traccia completamente diversa: una marcia eroica dominata dalle tastiere in cui la voce operistica femminile torna ad insinuarsi, di tanto in tanto, nel tessuto sonoro dei nostri. La canzone si chiude con un inquieto sfumato space ambient che traghetta direttamente verso il riff gelido della conclusiva “Of Setting Suns and Rising Moons”. Una rullata marziale dona corpo alla traccia, che poi si prende la briga di andare in ogni direzione le venga in mente, intervallando raffiche violente, intermezzi flautati dal sapore quasi mediterraneo e sporadiche digressioni bucoliche. Il finale smaccatamente black viene sostenuto da un coro che ne aumenta l’afflato solenne, chiudendo questo “Exile” con la giusta enfasi e contribuendo a dar vita a un ottimo quasi-debutto, che sicuramente farà la felicità degli amanti dei vecchi Bal Sagoth e, non da ultimi, di coloro che ricercano mescolanze musicali meno convenzionali e dall’alto tasso di cafonaggine. Per tutti gli altri: avvicinatevi a questo album con cautela, la sua apparente caoticità potrebbe spiazzare, in un primo momento, ma se sarete disposti a dargli una possibilità potreste divertirvi parecchio. Bentornati.