Recensione: Exile among Ruins
Tornano i maestri della decadenza Primordial, non certo una band che abbia bisogno di presentazioni. Una di quelle band come non ce ne sono molte, di quelle che, pur capendo a quale genere fanno essenzialmente riferimento, hanno saputo ritagliarsi una nicchia tutta loro nel variegato panorama del metal odierno. Una proposta singolare, anche se non rivoluzionaria, apparentemente facile ma di fatto impossibile da inquadrare all’interno di un genere specifico (ed anche per questo motivo che, costretti dalle ferree regole di redazione a dover spuntare un genere di riferimento – nella spartana varietà di opzioni tradizionalmente offertaci – ci siamo trovati a spuntare il più classico di tutti).
Forti di una formazione rodata e di stilemi che sono ormai un marchio di fabbrica, i nostri tornano, a quattro anni di distanza dall’ultimo “Where greater man have fallen”, con il loro nono full-length, intitolato “Exile among Ruins”. Un album che conferma sia quanto sentito in “Where greater man have fallen” e fa ancora mostra del l’ormai tipico sound dei Primordial. Chitarre abrasive, atmosfere disperatamente epiche che disegnano paesaggi desolati, rocciosi e battuti da una pioggia implacabile. E su tutto questo l’inconfondibile rantolo di A.A. Nemtheanga. Tutti elementi fusi alla perfezione nella opener da nove minuti secchi, la monumentale ‘Nail their tongues’. La successiva ‘To Hell or the Hangman’, invece si fa notare per il suo incedere groovoso. Chitarre elettroacustiche che disegnano riff marziali dal sapore vagamente black ‘n’ roll (mi si perdoni), per quello che è uno dei sicuri highlits del disco. Un groove che torna, anche se totalmente elettrico e malsano, anche più avanti, in “Sunken lungs”.
Altro pezzo monumentale è senza ombra di dubbio ‘Upon the spiritual deathband’, un pezzo carico di grandioso malessere che arriva dritto in pancia. In questa traccia, ancora, merita una menzione speciale l’evocativa prestazione vocale di Nemetheanga, e il suo urlaccio “your foolish heart” che chiude in sé molto più male di vivere di quanto se ne possa trovare nelle intere discografie di decine e decine di band dedite al black metal puro. Un’ottima prestazione vocale, unita ad un ritornello (chiamiamolo così) che si stampa subito in testa sono invece gli elementi distintivi della title track.
Merita invece un discorso a parte “Stolen years”, un pezzo che, pur avendo poco di metal, rimane al cento per cento un pezzo dei Primordial. Un pezzo di chitarre meste, quasi proprie dell’indie e una voce non più rantolata ma sorprendentemente cantata. L’effetto, molto brit-rock, porta anche alla mente un Nick Cave particolarmente innamorato delle chitarre elettriche. E chiude tutto Last call, coi suoi dieci minuti di contrasti, di malinconia interrotta da furia iconoclasta.
Non c’è molto altro da dire, chi conosce gli irlandesi può andare a colpo sicuro. “Exile among ruins”, che esce a quasi vent’anni dalla prima uscita della band, conferma i Primordial per quello che sono. Una band che sfugge alle catalogazioni e che, nonostante il passare degli anni, non ha la minima intenzione né di cambiare né, tantomeno di fermarsi. Ennesimo must have per tutti i fan della band e ennesimo disco di ottimo livello. Difficile stabilire, visto la vaga componente di indie-decadenz, lo spettro di tutti gli appassionati di musica che potrebbero apprezzare questo disco, così come molte altre opere targate Primordial.