Recensione: Exi(s)t
Gli Stati Uniti si stanno rivelando una fucina inesauribile di quello che può indicarsi il successore del death classico: il deathcore. I Reflections, con il secondo album in carriera, “Exi(s)t”, evitano peraltro l’underground grazie al sodalizio con la leggendaria major SPV/Steamhammer, altro inequivocabile segno della raggiunta maturità, se non altro commerciale, di un genere che fa (anche) della modernità il proprio punto di forza.
I Reflections ci vanno giù duro, questo occorre subito dirlo. Alla pari di colleghi quali Suicide Silence, All Shall Perish, Oceano e Within The Ruins, incanalano la naturale sovrabbondanza energetica delle giovani leve in una proposta musicale dalla forza a volte esagerata; contraddistinta dall’erogazione della potenza che avviene con il caratteristico sistema ‘off/on’ ritmato dai molteplici breakdown o stop’n’go che dir si voglia. Cioè, da quegli improvvisi rallentamenti della velocità verso valori bassissimi, sì da elevare il ‘peso’, la ‘massa’ dell’impatto frontale, che diventa quasi insostenibile per un normale apparato uditivo.
Tutto quanto scritto più su, nel primo capoverso, non deve allora ingannare: “Exi(s)t” non è e non sarà mai un CD che girerà nel lettore di un supermercato, di un fast-food o di uno stadio da baseball. A parte qualche inevitabile, per il genere, spunto melodico, la sostanza di cui è fatto l’album è talmente dura e compatta da essere del tutto indigesta per il fruitore medio di musica; relegando perciò il fan teorico della band nell’immenso calderone del metal. Anzi, del metal estremo.
In più, l’altissimo tasso di tecnica individuale retaggio della formazione di Minneapolis consente a essa di esplorare i complessi, variopinti, esoterici territori dello sperimentalismo à la Gojira; prendendo dal djent l’amore per tutto quanto non sia lineare e immediato. Restando aggrappati al versante deathcore, tuttavia, a parere di chi scrive, i Reflections non cadono nella trappola dell’autocelebrazione, mantenendo i piedi bene per terra e compiendo un passo dietro l’altro grazie a brani sì complicati, ma mai astrusi o, peggio, intelligibili. Rinnovando anche talune caratteristiche peculiari delle tipologie *-core, come per esempio l’uso di cori leggeri, eterei, dall’aria trasognante; il sound brutale ma brillante come l’acciaio, la grande aggressività delle linee vocali, rauche; lo scatenamento d’improvvisi blast-beats, l’esplosione di trascinanti segmenti di puro hardcore, il rutilante, evoluto lavorìo del basso.
Naturalmente uno sviluppo così rapido (formazione nel 2010, primo disco nel 2012 e secondo nel 2013) non può non aver causato qualche vuoto, nell’espressività dei cinque ragazzi del Minnesota. Vuoto che si può identificare in un songwriting ancora acerbo. Pure lo stile non appare del tutto formato, presentando alcune propaggini sonore non troppo coerenti con il genere di base che, di fatto, impediscono di mettere a fuoco un marchio definitivo e ben disegnato. Ma sono soprattutto le canzoni a presentare un andamento troppo altalenante, troppo oscillante attorno a quello che dovrebbe essere il polo inamovibile dello stile di una band. Canzoni cioè poco continue nel presentare dettami consolidati, stilemi certi, concetti determinati. Una sensazione di ‘sfilacciatura’ che impedisce di godere appieno della grande bravura dei Nostri.
Serve ancora esperienza, allora, ai Reflections, per emergere con decisione nel mercato del metal estremo; esperienza da mettere a frutto non nell’esecuzione tecnica, praticamente già ai massimi livelli, quanto nella ricerca di una propria strada artistica, di una filosofia musica unica e irripetibile se non da loro stessi.
“Exi(s)t”, comunque, per la finezza della manifattura e per le tante idee, ancora allo stato embrionale, che s’intravedono al suo interno, è senz’altro un lavoro da prendere in considerazione per ciò che è e ciò che, in futuro, i Reflections medesimi potrebbero rappresentare.
Daniele “dani66” D’Adamo
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