Recensione: Exit Wounds
The Haunted Mark 2.
È sacrosanto e obbligatorio considerare i The Haunted come una band dal dualismo ben marcato, o magari sofferente uno sdoppiamento di personalità notevole. Ciò esula da problemi mentali e psicologici ma trova fondamento rimanendo nei meri e più a noi consoni meriti artistici. Queste oscillazioni caratteriali dipendono da un solo fattore cardine: il cantante.
La Mark 1 trova al microfono Peter Dolving; formazione all’inizio ortodossa poi sperimentale, contestatissima a torto marcio da spettatori di un genere che non ammette il fuoriuscire dai binari in nessuna maniera. Secondo certe correnti di pensiero una band dovrebbe emergere col primo disco e mai più scostarsi dagli stilemi offerti in quella sede per non essere “venduta” o altre castronerie che comunque non andrebbero mai oltre quel romantico parto registrato in un garage, col china emulato tirando la coda al gatto della nonna del bassista. L’ortodossia e l’essere true sono anche questo,
Non ce ne vogliate: dischi come “Revolver” però, “The Dead Eye” e “Unseen” offrono molto più di uno spunto interessante e meritano una giusta riscoperta.
La Mark 2 della band invece, con Marco Aro al microfono, per quanto qualitativamente nella media, suona sempre lo stesso thrash death e quasi lo stesso disco con gli stessi riff.
Ciò sembra fatto passare per un difetto ma non sempre lo è; anche il fare lo stesso disco senza spostarsi di una virgola dai precedenti non è cosa facile, anzi.
Detto questo, “Exit Wounds” trova Marco Aro ancora una volta in pista, e il risultato, manco a dirlo, suona come “Made Me Do It” e “One Kill Wonder” senza tirare in ballo oscure similitudini ma chiarissime uguaglianze. Nel caso quindi i vostri gusti fossero in linea con questo stile, fiondatevi verso il primo negozio di dischi e di certo non rimarrete delusi; inizierete già a dare segni di squilibrio in macchina rischiando di finire nel fosso a fare “l’uomo che insegnava headbanging alle nutrie”.
Nel caso invece abbiate apprezzato il corso più sperimentale e “post” della band, probabilmente apprezzerete ma storcerete il naso davanti a una scelta che rimane comunque interlocutoria e pone una domanda: in casa The Haunted ci sono le idee chiare o no? Perché fare “Unseen” per poi regredire a un’assenza di idee totale?
Parlando chiaro, “Exit Wounds” è un gran disco, diretto, in your face, violentissimo, ma frutto di una band in perenne crisi d’identità. Perché “Exit Wounds” è tutto quello elencato ma assolutamente non è un’idea. Colpa di Dolving uccel di bosco che va e viene a piacimento? Chi lo sa.
Filosofie a parte, quella che ci troviamo davanti oggi è una band in splendida forma che ha ancora voglia di picchiare duro e bene, dichiaratamente anche. Va bene così quindi, “Exit Wounds” non è un disco con delle pretese, salvo quella di prendere a calci il fruitore là dove non batte il sole.
Ci riesce benissimo con una produzione sporca e abrasiva, un riffing slayeriano che plagia e si autoplagia, come detto, dai dischi precedenti in maniera sia strutturale che armonica e senza variazione alcuna. Basti pensare all’opener “Cutting Teeth”, ad esempio, che risulta totalmente identica a “Bury Your Dead”!
La sezione ritmica è rocciosa e monotematica come devi essere: qui si torna direttamente agli anni ’90 riducendo il tutto all’essenziale. 3-4 tempi di batteria al massimo e il gioco è fatto: l’unica nota dolente del disco risulta la voce, veramente troppo monocorde. Vero è anche che la musica suonata in questa sede altre soluzioni non le richiede né permette; sarebbero fin state ridanciane.
Non trova ovviamente molto fondamento un discorso di longevità sul lungo periodo: “Exit Wounds” è un disco che si assimila in poco tempo e si brucia in maniera uguale, breve ma intenso.
Farà però sempre il suo dovere, come distribuire mazzate a profusione anche a noi critici, che siamo sempre costretti a cercare il pelo nell’uovo anche quando probabilmente non c’è proprio niente da capire.
Promossi.
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