Recensione: Expanding Oblivion
Fantascienza allo stato puro, a costituire l’ossatura lirica di “Expanding Oblivion”, terzo full-length dei Pestifer. Che, al contrario di come farebbe supporre il nome, invocante scenari pandemici, praticano un elaborato, almeno altrettanto come i testi, technical death metal.
La voce roca e leggermente arsa di Jérôme Bernard è subito lì, a impostare uno stile che tenta di sfuggire ai cliché del genere o, meglio, sottogenere. Sì, poiché la sua interpretazione è più vicina a quella che si intraprendeva nel death dei primi anni novanta, quando estremizzazioni come growling, harsh vocals e inhale erano ancora da venire. Questa circostanza, è cioè la costante vicinanza al death ortodosso, si riflette anche nella musica. Complessa e complicata, certamente, ma dotata di un’anima che fonda la sua esistenza indietro nel tempo. Una sorta di technical death metal ragionato e quasi timido, che tende a tenere a leggera distanza esagerati arzigogoli che, a volte, sono fini a se stessi per dimostrare fredde quanto mere capacità tecniche.
Ecco, il calore. Il combo belga cerca sempre di trovare soluzioni che, accanto alla necessaria difficoltà di concepimento ed esecuzione, posseggano qualcosa di vivo (‘Ominous Wanderers’), senza necessariamente concentrarsi solo e soltanto su un aspetto formale in cui vengono messe a giorno tutte le abilità possedute dalle formazioni che praticano questo tipo di sottogenere musicale. Ovviamente il drumming è assai elaborato nonché teso a mutare con buona continuità, nel senso che è difficile trovare tre secondi tre di battute simili alle altre. Con un’eccezione: i blast-beats, che Philippe Gustin spara spesso e volentieri alla velocità della luce. Non sempre, tuttavia, il ricorso alla loro follia scardinatrice si può dire riuscito, soprattutto quando si accosta a riff di chitarra lenti e dissonanti, provocando in tal modo una fastidiosa scollatura dell’insieme, come se ciascun musicista se ne andasse per i fatti suoi. Ciò chiaramente non è, poiché è lampante che anche questa discrasia sia studiata a tavolino (‘Silent Spheres’), così come tutto il resto.
Si sobbarca una grande dose di lavoro l’unica chitarra in gioco, che è quella manipolata dalle mani di Valéry Bottin. Il quale mostra, anch’esso, una prodigiosa completezza, tale da sostenere ogni difficoltà creata da un modus realizzativo che, bene o male, alla fin fine denuncia sempre e comunque una gran voglia di scalare le più alte vette dell’accidentalità musicale. Che, come già accennato, non è l’obiettivo primario dei Pestifer. Tant’è che sono presenti canzoni più accessibili, seppure sempre arzigogolate, come per esempio ‘Swallower of Worlds’, piacevoli nonché gustose da ascoltare.
Purtroppo per i Nostri, quest’ultima fattispecie avviene di rado, giacché il songwriting assomma a sé e, forse, non poteva essere altrimenti, un rigoroso rispetto dei dettami che costituiscono l’ossatura media di un’opera di technical death metal. Di conseguenza la tracklist è completata anche da brani di difficile assimilazione se non comprensione, come l’impossibile ‘Fractal Sentinels’, in questo caso sì, esageratamente lavorata per un esito infausto che istintivamente porta a riflettere addirittura sulla necessità che, nel metallo più estremo, esista un qualcosa che possa definirsi “metal da camera”. Il che è l’esatto opposto di tutto quanto dovrebbe scatenare a briglie sciolte il metal medesimo.
Nonostante uno stile interessante e un po’ diverso dal solito, sempre prendendo a riferimento il sottogenere di cui trattasi, i Pestifer inciampano clamorosamente nella scrittura delle varie tracce, a volte incomprensibili nel loro filo conduttore, a volte semplicemente noiose. Tant’è vero che, nemmeno dopo pochi ascolti, viene naturale passare ad altro.
Con queste ultime considerazioni “Expanding Oblivion” si può catalogare come un disco a uso e consumo soltanto dei fan più accaniti anzi ossessionati dal technical death metal. I Pestifer, in alcuni momenti, paiono essere davvero in grado di elevarsi sopra la media, come accade nella suite conclusiva, che funge – anche – da title-track. Troppo poco e troppo tardi, però, per risollevare un lavoro che, piano piano, è scivolato nel giudizio di una risicatissima sufficienza complessiva.
Daniele “dani66” D’Adamo