Recensione: Extrabiliante

Di Fabio Vellata - 3 Aprile 2020 - 17:16
Extrabiliante
Band: Licantropy
Etichetta: Go Down Records
Genere: Stoner  Vario 
Anno: 2020
Nazione:
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71

Un disco difficile e bizzarro che si prefigura sin dalla buffa copertina e dal titolo invero profetico come un concentrato di intransigenza dai contorni ardui ed indefiniti, in cui il confine tra armonia musicale e pura stravaganza indecifrabile è quanto mai labile e sfumato.

Extrabiliante”, secondo capitolo discografico per i veneti (terra insospettabilmente fertile per i generi di “confine”) Licantropy può, in effetti, rappresentare un bel dilemma per chiunque si approssimi al suo ascolto senza preventivi avvertimenti al riguardo del bailamme sonoro cui andrà incontro lungo le dieci tracce offerte.
La base è quella di un garage punk rock sporcato vagamente di rockabilly ed infarcito di suoni lo-fi / psichedelici che si rifanno moltissimo all’immaginario anni sessanta / settanta.
La sostanza ci parla invece di un universo dissonante e mutaforma, fatto di suoni imprevisti ed imprevedibili, visionari, talora all’apparenza sconclusionati, di difficile assimilazione, di sicuro personali e ben lontani da qualsivoglia logica di tipo commerciale,

Un bel pugno nello stomaco che denota un grande coraggio proprio nella manifesta intenzione di volersi infilare palesemente in una nicchia di audience popolata da uno sparuto numero di appassionati ma che, di contro, ossequia con prepotenza il concetto di “arte” fatta non per compiacere, ma piuttosto quale forma d’espressione primitiva al di la d’etichette e classificazioni.
Parlando d’etichette, non poteva – gioco forza – che essere Go Down records la label interessata a sviluppare una proposta tanto eccentrica quanto fuori schema.

Allucinato e caleidoscopico, “Extrabiliante” vive d’episodi nervosamente instabili in cui l’LSD gioca con tutta probabilità un ruolo chiave: il saliscendi di brani come “Big Bad Affairs” e “Pale Moonlight” lascia piuttosto frastornati, contrapponendosi ai momenti leggerissimamente più orecchiabili di cui “My Fat Long Tail” e “Another Wolf Game” sono validi esponenti. Belli, va sottolineato, i suoni di hammond, capaci di conferire ovunque un fascino ancestrale ed onirico.
Capitano poi tracce come la title track, “I Wolf The Line” (pezzo che sembra uscire da una vecchissima radio che suona in mono) e “Bite me Wolf” in cui lo stordimento è totale: un ululato continuo ad una luna lisergica che nella sua assurda pazzia riesce in qualche modo ad affascinare.
Del resto “luna” e “lupi”, sembrano essere i leitmotiv – o meglio, “ossessioni” – preferiti dal terzetto trevigiano, come testimoniato sin dal debutto “We Were Wolves”.

Evocativa e buona per chiudere con grandissimo stile, “Coyote” – strumentale capolavoro – suggella un cd complicato, difficilissimo da digerire, quasi ubriacante, pazzoide e disorientante.
Serve andare oltre i primi ascolti per non farsi bruciare dal muro incomprensibile di suoni instabili e nervosi. Soprattutto, per poter intravedere la sagoma di un gruppo dotato di fortissima personalità cui “Extrabiliante” è emanazione diretta e manifesto caratteriale.
Artistico, senza ombra di dubbio. Destinato però, veramente a pochi.
Nondimeno, fascinoso e ricoperto di quell’alone di elitaria purezza nel proprio essere fuori da ogni classificazione che ne nobilita in modo concreto e definitivo gli esiti.

 

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