Recensione: Extreme Graveyard Tornado
Semmai ci fosse stato qualche dubbio in proposito, la Svezia partorisce metal su metal, di qualunque genere, a patto che sia di ottima fattura. Si è spesso discusso di questa sua incredibile attitudine nello sfiorare e rendere oro, come Re Mida, qualsiasi cosa somigli a una chitarra elettrica distorta o a un rullante o a un altro strumento musicale qualsiasi.
E quindi, anche il grindcore, genere certamente fra i meno consueti in quanto preminentemente forestiero, trova nei musicisti scandinavi un buon punto, anzi ottimo, di appoggio.
È il caso dei Birdflesh, scellerato trio composto da tre orridi figuri mascherati che rispondono agli improbabili nomi di Smattro Ansjovis, Count Crocodelis e Willy Whiplash. Un trio che nasce nell’ormai lontano 1992 e che, dopo una decade di silenzio, raggiunge il traguardo del quinto full-length: “Extreme Graveyard Tornado”. Come si può intuire, pertanto, l’approccio alla questione da parte dei Nostri è improntato su un’attitudine testuale principalmente ironica e scherzosa (‘Garlic Man’), come peraltro viene richiamata dai titoli delle canzoni.
Ciò che viene maledettamente preso sul serio, invece, è l’aspetto musicale. Riflettendo sul loro anno di formazione, la conseguenza immediata è che il grindcore macinato dal combo di Växjö abbia un meraviglioso tocco vintage, derivante, appunto, dall’aver vissuto in prima persona l’era in cui il genere era sì ancora contaminato dall’hardcore ma che ha nel suo DNA, inequivocabilmente, un’anima totalmente metallara. Discostandosi anche un po’ dai celeberrimi SOD, MOD e compagnia cantante, che tanta influenza hanno avuto sulla scena statunitense e non.
No, i Birdflesh fanno metal. Dannato. Furibondo. Violentissimo e velocissimo. Ma sempre e solo metal.
È chiaro, come da tradizione, che una delle caratteristiche peculiari di “Extreme Graveyard Tornado” è quella di essere suddiviso in tante song, più precisamente ventiquattro. Alcune di esse assai brevi ma la maggior parte complete e compiute, anche se magari più corte di un minuto. Tanto che si può godere appieno del mostruoso riffing di Count Crocodelis. Derivazione thrash, semplice ma preciso, rotondo, assai movimentato, lineare in modo da non perdere il ritmo stando dietro a una specie di propulsione nucleare individuabile del drumming di Willy Whiplash; quasi incredibile nella sua bravura nel riproporre, con costanza e consistenza, tutti i ritmi del metal oltranzista, compreso le folli accelerazione dei blast-beats. Alcuni brani, come per esempio ‘Accused of Suicide’, raggiungono intensità da allucinazione. Vere cannonate che rasano al suolo tutto ciò che si trovano davanti.
Un altro punto a favore del terzetto del Nord Europa, almeno a parere di chi scrive, è quello di aver mantenuto intatti tutti dettami di una foggia musicale tanto immediata quanto dirompente, evitando accuratamente di elevare esageratamente la tecnica sia di esecuzione sia di composizione. Cosa che accade per alcune realtà site nell’Est Europeo quali per esempio gli Antigama. Al contrario, i Birdflesh mantengono le loro coordinate stilistiche entro i canoni del puro divertimento, senza intrupparsi in contaminazioni a volte ridondanti o addirittura noiose (jazz?). C’è da evidenziare, comunque, che la loro abilità nel songwriting non è da sottovalutare, giacché non è semplice raggiungere quasi mezz’ora di durata senza che ci siano momenti tediosi. Anzi, una volta terminata una traccia, viene subito voglia di ascoltare quella successiva (‘Pyromaniacs’… ‘Bite the Mullet’).
Una rentrée, quella dei Birdflesh, che possiede il grande merito di avere a monte un gran retroterra culturale – un’anima – in grado di attualizzare suoni che, bene o male, hanno contribuito a scrivere la storia del metal. Per il resto, i vicini di casa sono avvisati: alzino le barricate!
Daniele “dani66” D’Adamo