Recensione: Exuvia
The Ruins of Beverast è un progetto musicale ormai attivo dal 2003, in cui l’unico protagonista, compositore e musicista materiale, è il tedesco Alexander von Meilenwald. “Exuvia” è la quinta fatica discografica di un artista il cui percorso idealmente qui trova un successivo ideale passo in avanti. Le basi del sound sono un doom metal dalle divagazioni black ed ambient.
Il full-length in esame ha in sé molte divagazioni ritualistiche, atmosfere esoteriche che ci riportano in un cerimoniale, vera e propria visione del sound estremo ad ampio spettro. Non parliamo infatti di classici richiami a questa o quella realtà, trovandoci di fronte ad una miscela che crea qualcosa di davvero nuovo.
Alchimie in cui vediamo angoscia, emozioni che si fanno maestose e ristoratrici, un po’ come un respiro di profonda calma in un contesto in cui, poco tempo prima la mestizia ci feriva. Tanti strumenti musicali, ambientazioni che partono dalla psichedelica e che si fanno poi sorridenti, come pagana danza.
Lapilli post-rock, cadenze doom e chitarre di scuola avantgarde norvegese, lasciano il passo ad effetti di fondo davvero inaspettati. Per l’occasione abbiamo rispolverato la discografia del progetto, notando come dal passato ad oggi, il sound si sia raffinato e poi spinto a sperimentazioni inusuali. Per prima cosa parliamo della commistione tra il costante e martellante uso delle ritmiche, infranto da geniali e cacofonici fraseggi che portano alla memoria la psichedelica più pura e l’ambient.
Il disco parla di riti sciamanici dei nativi americani, in questo senso crediamo che tutto sia perfettamente contestualizzato, dissonanze e digressioni, ciclo di echi che si intrecciano creando immagini. Specchio d’acqua riverbera luci ed immagini, infranto da sentimenti le cui onde muovono e mutano l’aspetto di una natura che prende d’improvviso il colore e la forma dei nostri stati d’animo.
“Exuvia” è unico in ogni aspetto, invitandovi a sviscerarne il contenuto con molteplici ascolti, non fermandovi e cercando di approfondirne le miriadi di sfaccettature. Lo spirito diventa un tutt’uno con la terra, madre a cui torniamo idealmente e che ci protegge, dopo un viaggio fatto di dure prove in cui, oltre al corpo, anche l’anima ha trovato equilibrio, temprata ed ora finalmente nutrita, appagata.
Lavoro in cui è difficile trovare punti deboli e che siamo convinti il tempo farà entrare tra le pietre miliari del genere estremo, per capacità ipnotiche, per gusto delle melodie e per consistenza dei suoni, nonostante divagazioni che toccano l’anima più che i timpani. Complimenti sinceri.
Stefano “Thiess” Santamaria