Recensione: Eyegasm, Hallelujah!
Ritornano sulle scene i Sunpocrisy, sestetto proveniente da Brescia dedito a una proposta musicale senz’altro particolare. È in un certo senso strano e piacevole sentire tanta qualità, profondità, dimestichezza e inventiva nella musica di questi ragazzi italiani giunti al secondo album, dopo l’ottimo Samaroid Dioramas (2012) qualitativamente di poco inferiore all’album oggetto di questa recensione, alla luce del fatto che si tratta ancora una volta di un lavoro autoprodotto. E fa ulteriormente rabbia pensare a tutte quelle insignificanti realtà uscite dai diversi talent show con dei contratti discografici in tasca, senza uno straccio di vero talento, mah…
Con questo lavoro mastodontico siamo di fronte a un’opera molto impegnativa e complessa, che dà il massimo di sé proprio se viene assorbita e approfondita a dovere. Dico subito che non è di facile ascolto e, come ogni opera di un certo spessore, acquisisce il suo vero valore proprio se viene sviscerata e capita, attraverso un processo graduale, ascolto dopo ascolto e preferibilmente con i testi alla mano. Riprendo due concetti chiave: gradualità e testi. Eh sì, perché il lavoro che viene proposto, volendolo classificare a ogni costo, possiamo definirlo, con evidente prolissità, melodic progressive post death metal. Ma prendete con le pinze questa classificazione, perché come ogni opera di un certo livello è poco soggetta a classificazioni o restrizioni, è molto di più. Venendo alle liriche, l’opera parla di una concezione trascendente dell’individuo, che è alla continua ricerca di una meta e di una metà attraverso l’impulso visivo. ”Eyegasm”: un orgasmo visivo considerato come un complesso di reazioni neuro-muscolari involontarie. Si esplora poi il concetto di reincarnazione, dove la figura del pavone è simbolica: essendo bellissimo per uno scopo ben preciso, si ritrova ad avere le stesse necessità dell’individuo che era prima, incarnando perfettamente quel concetto. Il tutto si conclude con un “Hallelujah!” che sancisce l’unione fisica e mentale delle due unità diventando una cosa sola.
Analizzando il lavoro brano per brano si percepisce che è stato concepito come un unico viaggio concettuale. Il percorso inizia con un richiamo al lavoro precedente, con i primi due brani: “Eyegasm” e “Mausoleum Of The Almost”. Per chi ha ascoltato e apprezzato “Samaroid Dioramas” si troverà ad ascoltare un piacevole proseguirsi del flusso musicale interrotto dal passaggio da un cd all’altro. Quindi inizialmente rimarranno forse un po’ delusi quelli che si aspettano sempre qualcosa di diverso e nuove interpretazioni. “Transmogrification”, il terzo brano, è un intermezzo strumentale che letteralmente trasforma l’album, tirando fuori concetti musicali nuovi, ancora più profondi e ricercati, che poi prendono vita con il quarto brano, epico in lunghezza e profondità: “Eternitarian”. Insomma, se con questa trasformazione magica sono riusciti a tirar fuori una tale qualità espressiva, per riuscire a superarsi, nei prossimi brani dovrebbero ricevere una specie di trasfigurazione o giù di lì. E in effetti ci vanno vicini, dopo un brano sperimentale e introduttivo come “Of Barbs And Barbules”, con un trio di brani di assoluta bellezza come: “Kairos Through Aion”, melanconica e tragica (il titolo fonde due concetti greci di “tempo”); “Gravis Vociferatur”, potente e progressiva e “Festive Garments” riflessiva e piena di fiducia in un avvenire positivo, nonostante tutto…
In fine di album, come facilmente pronosticabile, troviamo un brano epico sotto ogni suo aspetto, una canzone evanescente che ti lascia un non so che di etereo e misterioso. “Hallelujah!” è una metafora di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che sarà. In termini musicali traduce la metamorfosi dell’approccio compositivo di cui abbiamo parlato sopra, che in termini letterari e testuali è appunto l’ambiguità dell’essere vivente dal punto di vista metafisico e filosofico.
Tirando le somme vorrei affrontare qualche criticità rilevata durante l’ascolto. Va benissimo un album concettuale, pieno di atmosfere ambient e ricercate, riuscite perlopiù, ma si sente un po’ la mancanza di qualche assolo di chitarra più incisivo, di qualche riff più spinto e calzante, qualche ritornello più memorabile e toccante. Insomma, dopo più di settanta minuti di musica, nonostante tutti i pro che ho citato sopra, alla fine si ha la sensazione che qualcosa in più poteva essere fatto. Del resto non si tratta di un album completamente ambient e questa via di mezzo tra ambient e metal non convince del tutto. Mi auguro in una futura “Transmogrification” più incisiva e più appetibile al pubblico cui si rivolge. Proprio perché chi ascolta solo ambient difficilmente sarà interessato a sentire il growl dei nostri, invece chi ascolta sonorità più aggressive vorrà sicuramente qualcosa in più di un piacevolissimo ambient.
Consiglio, comunque, a prescindere dai gusti musicale, di intraprendere questo viaggio con i Sunpocrisy, con l’unica condizione di immergersi realmente e totalmente in tale percorso emiozionale; di certo come musica di sottofondo rende poco. E vi assicuro che dopo un’esperienza simile non tornerete al punto di partenza, perché in qualche modo, anche in una profondità impercettibile… sarete diversi.