Recensione: F.U.B.A.R.
Un premio alla coerenza ed alla continuità per gli Hell in the Club, quattro ragazzi orgogliosamente italiani.
Arrivati al sesto album in carriera si dimostrano ancora ispirati ed in forma, capaci di sfornare un altro – l’ennesimo – disco di hard rock ruvido, cazzuto e divertente che se l’avessero scritto gli Hardcore Superstar si sarebbero spese lodi spericolate.
In realtà agli Hell in the Club non è mai mancato granché rispetto a più celebrati e blasonati colleghi del nord europa. I già citati Hardcore Superstar, come i Crashdiet, i Wig Wam o i Crazy Lixx sono sempre stati ampiamente a portata di mano. Eppure, chissà perché, spesso il loro nome è passato un po’ inosservato. In sordina rispetto all’ottimo risultato portato a casa con certosina costanza.
Forse nemmeno “F.U.B.A.R.“, (acronimo che in tempi di guerra indicava una situazione senza speranza), gran bel disco nel solco della loro più rigida tradizione, servirà ad ottenere una consacrazione davvero ad ampio respiro come i nostri meriterebbero.
Ma in fondo, chissenefrega. In scioltezza e disinvoltura: ci si diverte come al solito ed il coefficiente di immediatezza stavolta è spinto al massimo.
Se il mondo non se ne accorgerà nemmeno stavolta, poco importa. Avremo comunque potuto gioire di un album che va giù tutto d’un fiato e riesce ad essere fresco pur senza mai discostarsi da un canovaccio iper consolidato.
Li conosciamo sin dal loro esordio di dodici anni fa e ci piacciono proprio per essere sempre stati un porto sicuro per l’hard rock “di strada”, sincero ma dannatamente ben fatto. Con ritornelli e cori marchiati a fuoco da una facilità d’ascolto invidiabile. E pure alcune insospettabili raffinatezze strumentali e negli arrangiamenti, che nei loro dischi non sono mai venute meno.
Insomma, gli Hell in the Club sono sempre loro.
Quelli che già da un brano come l’opener “Sidonie“, catturano l’attenzione con chitarre accese doppiate da una linea melodica attraente ed easy listening. Oppure quelli che giocano a fare i “cattivoni” in pezzi come “Cimitero Vivente”, “Undertaker” e “Best way of Life”. Salvo lasciare poi un bel sorriso stampato sulle labbra.
Riff che girano a mille all’ora ed una energica folata di quell’hard rock che nei Mötley Crüe ha visto la luce dell’alba qualche decennio fa.
Ci si trastulla e sollazza per una quarantina di minuti con il volume che, senza nemmeno rendersene conto, aumenta inesorabilmente come il prezzo della benzina. Con la differenza che per quest’ultima ci si incazza come belve. Con gli Hell in the Club si ottengono invece belle soddisfazioni, rombando lisci e senza irritazioni verso l’ascolto di un rock stradaiolo, sanguigno e corroborante.
Leggero, magnetico, ricco di passaggi ficcanti e con qualche colpetto di genio (il riff di Tainted Sky per dirne uno), “F.U.B.A.R.” ha solo una copertina un po’ più “bruttina” del solito. Ma in quanto a contenuti non ha proprio nulla da invidiare agli strombazzatissimi colleghi delle terre del nord.
Vogliamo scoprirli una volta per tutte e dar loro il riconoscimento che si meritano?
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