Recensione: Face this Burn
Chi non muore si rivede… pare essere proprio la frase più adatta per presentare il comeback discografico dei newyorchesi Holy Mother: la formazione statunitense, infatti, è attiva dal 1995 ed ha pubblicato già vari album a base di un solido heavy/power americano.
Nel 2003 immettono sul mercato il loro sesto full length “Agoraphobia” e poi della band si perdono le tracce.
Un silenzio durato quasi 18 anni che però, stando alle parole del vocalist Mike Tirelli, non ha mai significato un vero e proprio scioglimento ma più una pausa necessaria.
In compenso durante tutto questo tempo Tirelli non se ne è stato certo con le mani in mano: il singer è stato comunque impegnato pubblicando quattro album con i tedeschi Messiah’s Kiss, un tour con i Riot di Mike Reale, uno spettacolo teatrale e un paio di tribute band a Ronnie James Dio e Whitesnake.
Inoltre è stato affetto da un cancro allo stomaco, esperienza della quale avrebbe volentieri fatto a meno possiamo immaginare, ma alla fine ne è fortunatamente uscito vincitore. Ovviamente non si è dimenticato degli Holy Mother, restando sempre in contatto con il batterista Jim Harris (anche lui durante questo break si è tenuto attivo alternando vari progetti musicali alla carriera di scrittore), finché i due decidono che è arrivato il momento di riaccendere i motori della band e così reclutati Greg Giordano alla chitarra (su consiglio di Mike Reale) e Russel Pzutto al basso, sono pronti a ripartire.
Ripartenza che ha il nome di “Face This Burn“: il nuovo lavoro in studio degli Holy Mother in cui la band newyorchese ci propone il classico heavy/power con sfumature di hard rock vecchia scuola. Di tempo ne è passato dal loro penultimo album, e questo Tirelli e Harris lo sanno bene per cui hanno deciso di dare un ammodernamento alle loro sonorità. Per meglio riuscirci è stato ingaggiato Kane Churco alla produzione, figlio del più noto Kevin, musicista, compositore e produttore che ha lasciato la sua firma su lavori di Disturbed, Five Finger Death Punch, Bad Wolves, Rob Zombie, In This Moment e Ozzy Osbourne.
Forte dell’ esperienza acquisita al fianco del padre, Churco Jr ora può mettere in pratica quanto appreso lavorando al servizio di Tirelli e soci in questo nuovo capitolo targato Holy Mother.
Intendiamoci, la band non si è di certo messa a fare nu-metal o crossover, il loro stile è essenzialmente un metal vecchia scuola ma con sonorità moderne tipiche proprio di band come Disturbed e Five Finger Death Punch, ma senza mai sconfinare troppo nel genere da esse definito.
Il disco si apre con le rasoiate della title track e di “Love Is Death” ove si sente subito la mano di Churco, con chitarra e batteria che presentano un suono molto pesante e moderno. Un approccio questo che richiama alla mente i Judas Priest del periodo Owen: con gli Holy Mother il risultato pare essere più riuscito, visto che all’epoca “Jugulator” e “Demolition” suscitarono pareri molto contrastanti tra i fans che non riuscirono a digerire una svolta cosi drastica da parte di una formazione storica come i Priest.
Arriva poi “Legend“, un pezzo dall’andamento lento ed atmosfere dark con sonorità moderne ancora in evidenza come la successiva “No Deal Reborn“, sempre caratterizzata da ritmiche lente e pesanti ed un curioso ricorso all’autotune nel ritornello.
Con “The Truth” si percorre la via del hard rock, mentre “Prince Of The Garden” risulta essere la traccia più strana del disco con un andatura calma da semi ballad che ricorda vagamente The Garden (tanto per stare in tema di giardini) dei Guns N’Roses dello storico “Use Your Illusion I“.
“Wake Up America” invece è un brano hard-metal con una buona ritmica e delle linee vocali accattivanti, pensata proprio per essere un buon singolo da lanciare in classifica.
“Mesmerize By Hate” è un mid tempo con atmosfere oscure che sembrano voler omaggiare Ronnie James Dio nel suo periodo Rainbow, con forti richiami a pezzi come “Stargezer” e “Gates Of Babylon“. Nel brano si può sentire inoltre un buon assolo di chitarra del neo acquisto Giordano.
“The River” è poi una rasoiata di metal ad alta velocità in cui sembra di sentire ancora i Judas Priest, questa volta però nella versione più classica di episodi come “Rapid Fire” e “Free Weels Burning” con la batteria di Harris a fare la parte del leone. Il brano si candida di diritto ad essere uno dei migliori del disco.
Da segnalare inoltre un bell’assolo di Greg Giordano ed i vocalizzi di Tirelli ad impreziosirne ulteriormente le trame.
In chiusura troviamo la ballad “Superstar“, cover dei The Carpenters, band pop degli anni 70, qua riprodotta in una versione più ruvida ed attuale.
Si conclude così “Face This Burn“, un disco che possiamo definire come un mix tra vecchio e moderno: le canzoni come dicevamo, hanno uno stile riconducibile all’heavy metal tradizionale ma con sonorità tipiche di certo nu-metal, forse più marcata nella prima sezione dell’album, per tendere a virare su temi più classici nella seconda.
Un idea sicuramente coraggiosa, che magari farà storcere il naso a qualche fan più integralista, ma che può comunque offrire degli spunti interessanti. In fondo non è detto che un aggiornamento al proprio sound sia per forza un crimine, specie se le radici restano comunque ancorate ad un hard/heavy di vecchia scuola. Se gli Holy Mother hanno fatto la scelta giusta o forse una troppo azzardata lo dirà solo il tempo, vedremo magari cosa succederà con il prossimo lavoro in studio…
Basta solo che questa volta non passino altri diciotto anni…