Recensione: Faith Divides Us – Death Unites Us
Se ricordate, nella precedente recensione dei Paradise Lost, dedicata al più che buono In Requiem (anzi, oggi un “ottimo” non lo si nega quasi a nessuno, suvvia!) avevamo esordito escludendo i discorsi sulla sincerità di un artista che, dopo aver palesemente rinnegato le proprie radici e aver sostanzialmente fallito, sia tornato sui propri passi. Bene, continueremo sulla stessa linea.
Questo perché nell’anno 2009, a più di 20 anni dai loro primi vagiti e a 14 da quel disco che ne ha segnato il destino, i Paradise Lost riescono ancora a rinascere, a graffiare e a convincere. Senza smentirsi, né rinnegarsi.
Faith Divides Us – Death Unites Us è infatti l’album che molti attendevano, specie dopo un In Requiem che ormai li vedeva ritornati in pieno al loro “dark metal” (perché così lo definivano, un quindicennio fa): chitarre distorte e pesanti, una batteria che scandisce il battito della vita e l’avvicinarsi alla morte, e soprattutto una voce, quella di Nick Holmes, che torna a graffiare.
I pezzi: uno meglio dell’altro, con rare eccezioni. Strutture azzeccate e forse nel pieno del cliché, ma di altissima scuola: dall’iniziale As Horizons End, che evoca i classici paesaggi dello Yorkshire a cui tanto devono, l’equivalente gothic/doom della taiga nordica per il black metal; a First Light, altrettanto evocativa e con un rimando diretto a cosette come Forever Failure, qua e là; sino alla title-track, che vince il premio per il videoclip più angosciante dell’anno e coglie nel segno dalla prima all’ultima nota. Tutto, in questo album, è chiaramente voluto e ispirato: si gioca molto sugli arpeggi, sulle melodie dark di chitarra (spessissimo accompagnate da tastiere in sottofondo, fondamentali ma mai eccessive), e anche se inspiegabilmente continua a mancare ciò che ha fatto assolutamente grande Draconian Times, e cioé la chitarra in perenne assolo di Gregor Mackintosh, momenti di pura atmosfera come Last Regret, ma anche di autentica potenza sonora come Universal Dream – e sfido chiunque dei vecchi appassionati a non trovarci qualcosa di Pity the Sadness, in quest’ultima – sono vere e proprie dimostrazioni di classe.
Ovviamente, questo album non è il loro capolavoro, e i momenti in ombra ci sono. Qualche intero brano, come I Remain, risulta un po’ anonimo; forse ci rendiamo anche conto, in qualche modo, che la magia non funziona più come una volta: siamo cresciuti tutti, noi come loro, e risulta difficile trovarli sempre credibili, di fronte a foto promozionali ottocentesche con tanto di carrozza funebre e cavalli in tinta.
Ma come dicevamo nell’incipit: questo non è un processo alle intenzioni, ma un giudizio sui risultati. E i risultati dimostrano che ye olde Paradise Lost, con il loro cammino tormentato e il loro passo cadenzato, sanno tuttora suscitare le stesse emozioni di vent’anni fa. Faith Divides Us – Death Unites Us porta probabilmente a compimento il loro cammino a ritroso verso le proprie origini, e noi non possiamo che gioirne, e tornare con la mente alle immagini seppiate e ombrose dei loro momenti migliori.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
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Tracklist:
1. As Horizons End 05:21
2. I Remain 04:09
3. First Light 05:00
4. Frailty 04:25
5. Faith Divides Us – Death Unites Us 04:21
6. The Rise Of Denial 04:47
7. Living With Scars 04:24
8. Last Regret 04:24
9. Universal Dream 04:17
10. In Truth 04:50