Recensione: Fallen
Pochi artisti riescono ancora a stupire, a reinventare la propria arte, erigendo o consolidando nuovi canoni stilistici con una naturalezza impertinente e distaccata, figlia di un inevitabile eremitaggio fisico e spirituale; pochi artisti sono riusciti finora a creare un universo parallelo, seppur piccolo e personale, contenuto nei pochi grammi di peso, nelle poche decine di minuti di musica di un disco.
Ormai assuefatto dalla libertà ritrovata, Varg Vikernes riaccende nuovamente la fiamma del progetto Burzum per proseguire il discorso stilistico concepito con l’affascinante “Belus“, coltivato negli anni di reclusione e pubblicato poco dopo l’uscita dal carcere.
Selezionando quanto di buono fatto nel passato recente e remoto della propria carriera, l’artista attua qui una sorta di rifinitura del proprio suono, attraverso un’ottica sempre individuale e bilanciata, dove musica e tematiche risultano legate a molteplici quesiti esistenziali; dove il concetto della “caduta” morale e mentale, incarnato dalla copertina (particolare del quadro “Élégie”, di William Adolphe Bouguereau), prende forma, concretizzandosi attraverso un vibrante continuum lirico e sonoro.
La magia psichedelica e la tensione sperimentale vengono qui reinterpretate, manipolate e stravolte in chiave alternativa e violenta; l’intero disco è stato infatti registrato con una strumentazione quantomeno atipica per il genere: per la cronaca e per gli appassionati, Varg Vikernes stesso ha dichiarato di aver utilizzato una batteria Ludwig degli anni settanta, un raffinato basso con elettroniche Alembic, suonato su ampli VOX del 1965, in contrasto con una violenta chitarra Peavey 23 fatta esplodere su un ampli sempre della Peavey 6505 da 120 watt, oltre a diversi microfoni Schoeps e Neumann per la voce. Tanto per rendere maggiormente evidente il contrasto fra vintage e moderno ricercato dall’artista.
Suoni stridenti, pulsioni sperimentali ed originalità si fondono così in maniera talora eccelsa, creando un compatto flusso emozionale che scorre di brano in brano senza trovare ostacolo alcuno.
I testi, stesi interamente in lingua madre, ricoprono come sempre un ruolo fondamentale, fungendo da linee guida per la decodifica del messaggio che il polistrumentista norvegese intende trasmettere. Per questo, chiunque voglia avvicinarsi a “Fallen“, farà bene a procurarsi una traduzione dei contenuti, al fine di poter assaporare l’opera nella sua completezza.
Le tematiche trattate sono profondamente legate alla sfera emotiva personale di Varg Vikernes, tuttavia le sfumature tradizionali e mitologiche, pilastri irrinunciabili del precedente “Belus”, risultano ancora presenti, seppur piegate dall’artista al proprio servizio, al fine di renderle caparbiamente allegoria della vita e delle emozioni.
Fallen – Caduto
Sin dall’intro ambient “Fra Verdenstreet” (Dall’Albero Del Mondo), Varg vuole accoglierci nel proprio universo, la cui via di accesso è un passaggio umido e sconnesso: una grotta oscura come uno squarcio nella mente. Tramite questo canale dimensionale veniamo trasportati verso l’albero cosmico Yggdrasill, che collega il cielo con la terra e la terra con gli abissi, le cui 3 radici raggiungo rispettivamente il mondo degli Dei, dei giganti e dei morti e i cui rami sorreggono la volta celeste.
Pochi sospiri, voci sconnesse e rumori umidi ed angoscianti, una pace oscura e scivolosa, pochi attimi ancora e la nostra mente viene catapultata nella successiva, maestosa “Jeg Faller” (Sto Cadendo). Chi ha apprezzato il sound di “Belus” non rimarrà deluso: le chitarre fruscianti ed il nuovo stile canoro di Varg Vikernes, corredato per l’occasione da un maggior utilizzo delle clean vocals, sono pressoché invariati e, soprattutto, la “magia” sembra intatta. Anche il basso e la batteria, grazie ad un sound polveroso e rotondo, ricoprono un ruolo di prim’ordine, rivestendo a dovere le scarne rasoiate chitarristiche e la voce sofferente del Conte. Quello che a tutta prima potrebbe sembrare un brano dall’accezione negativa, si rivela al contrario una sapiente descrizione della mutevolezza della vita. Varg infatti descrive la caduta del protagonista/alter ego dalla volta del cielo, dalla corona dell’albero cosmico, fino alla base. Una caduta che avviene lentamente, verso le radici dell’albero ed i fiumi che si dipanano da esse: “nella morte, dalla morte; nella vita, dalla vita”.
Lo studiato parallelismo fra mitologia nordica e vita/mente dell’artista risulta sin da subito affascinante, specialmente se accostato alle modulazioni musicali e vocali che egli usa per descrivere le proprie emozioni, come la scelta delle clean vocals proprio sul il ritornello che narra la lenta caduta, al fine di darne un senso accostabile alla pace.
Giunto oramai alla base dell’albero il protagonista berrà dal fiume della dimenticanza, e navigherà sospinto dal vento per conoscere la fine, l’inizio ed il significato dei poteri divini, bramando la morte che porta alla vita e l’oscurità che da la luce. Basta il primo brano a farci avvertire il sapore di “stream of consciousness” del disco. Risulta infatti pressoché impossibile o troppo personale decriptare in modo definito ogni pensiero che Vikernes ha voluto riversare nei propri brani, fra cui il desiderio di morte come passaggio necessario per raggiungere la conoscenza.
La bramosia della fine, trattata nella successiva, rocciosa “Valen” (Caduto), risulta la continuazione dei concetti esposti nel precedente episodio del viaggio emozionale, mentale e spirituale intrapreso dall’artista. Ritmiche più serrate ed un sound gelido descrivono così la ricerca della morte (cit. “Vieni morte, cara morte“), alla quale l’artista si rivolge come a un’amica. Una voce, forse proprio quella della triste mietitrice, risponde all’invocazione, chiedendo “Perché? Perché proprio con la morte?“. Ma egli persiste, continuando a vedere la fine della vita e dei ricordi come l’unica possibilità di trovare la luce, la pace e la conoscenza, attraverso il più oscuro dei percorsi.
Percorso questo che non può che sfociare nella perdita della ragione, descritta nella successiva “Vanvidd” (Pazzia). La Pazzia, dipinta come un’indefinita e terribile creatura celata dalle tenebre, orripilante e splendida al contempo, prende forma attraverso trame chitarristiche psicotiche e vocalizzi angoscianti, in quella che si rivelerà la canzone più violenta del lotto; la temibile Pazzia, che vagola per sentieri sconosciuti portando distruzione e paura, che spezza il cielo al proprio passaggio, odiata da molti, ma amata dai migliori.
Il viaggio psico-filosofico e le paranoie esistenziali di Varg Vikernes continuano durante la successiva “Enhver Til Sitt” (Ogni Uomo al suo Proprio, cioè Ogni Uomo Ottiene Ciò Che Si Merita), dal sound maggiormente accostabile agli ancestrali capolavori targati Burzum. Il brano, dall’incedere mesto, ripetitivo ed ipnotico descrive i pensieri di un uomo ferito mortalmente, che inseguendo il proprio cavallo nella foresta si pone domande sulle proprie azioni e sulla propria vita. La corsa del protagonista finisce lungo le sponde di un lago, dove incontrerà la dea della luna e verrà riscaldato e rincuorato dai sui raggi.
Come a spezzare la pesante contestualizzazione personale ed emozionale trattata per la quasi totalità del disco, con la seguente “Budstikken” (Il Messaggio) l’argomento mitologico ritorna di prepotenza. L’imminente avvento del Ragnarök, il potente suono del Gjallarhorn col quale il dio Heimdallr chiamerà gli Dei alla battaglia finale, viene qui espresso in modo marziale e drammatico, tramite atmosfere sofferenti e dilatate. Anche le lyrics, nonostante la non semplice interpretazione, risplendono di epica drammaticità, creata da una violenza verbale priva di pietà alcuna e votata a dipingere la tensione della preparazione allo scontro.
Il disco, come a voler chiudere il magnifico racconto iniziato col precedente Belus, si conclude con un lungo brano strumentale, intitolato “Til Hel Og Tilbake Igjen” (in pratica: Hel, Andata e Ritorno), dove, attraverso percussioni umide e rotonde ed un toccante finale acustico, viene descritto il ritorno dagli inferi del protagonista Belus (Baldr o Baldur), figlio di Odino, assieme al fratello Höðr, responsabile inconsapevole della sua uccisione, al fine di creare una nuova stirpe divina al termine del Ragnarök.
Ad ascolto concluso giunge quindi il momento di tirare le somme, che, mai come in questo caso, potranno essere influenzate dal parere, dai gusti personali e dal background artistico ed emozionale di ognuno di noi. La caratura artistica del lavoro ed il savoir faire di un’artista ormai attivo, considerando anche i progetti pre-Burzum, da oltre vent’anni sono indiscutibili.
Passata la frenesia del ritorno al lavoro dopo un periodo di inattività durato anni ed appurato che Varg Vikernes sia tornato in modo definitivo alle origini del proprio sound, sebbene con i dovuti e giustificabili mutamenti vocali dovuti all’età, con questo “Fallen” è giunto quindi il tempo della riconferma definitiva, dell’agognato abbraccio ad un amico col quale ci si era persi di vista, dopo i primi timidi momenti di imbarazzo.
Ebbene, secondo l’umile parere di chi scrive, questa conferma è avvenuta quasi pienamente. Sebbene il livello espressivo, la potenza lirica e la capacità di catturare completamente l’ascoltatore siano leggermente inferiori a quelle del succitato Belus, Fallen si contraddistingue comunque dalla massa, riuscendo, nonostante qualche momento di stanchezza vocale e compositiva, a mantenersi su livelli che, all’alba del 2011, sono raggiungibili solamente da chi possiede veramente la propria musica, e riesce a plasmarla a propria immagine.
Fallen, infatti, pare l’incarnazione di ciò che Varg Vikernes è ora, con tutta l’esperienza, le angosce e le speranze di un uomo che ha contribuito, nel bene e nel male, a creare un genere musicale e che possiede ancora le doti necessarie a modificarlo a proprio piacimento e secondo la propria arte, con risultati tutt’altro che deludenti.
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Lineup
Varg Vikernes: all instruments, vocals
TRACKLIST
1.Fra Verdenstreet
2.Jeg Faller
3.Valen
4.Vanvidd
5.Enhver til Sitt
6.Budstikken
7.Til Hel Og Tilbake Igjen